Un colpo d’ala e. . . avanti!

“Il mio vero nome è Vittoria – comincia a raccontare con quel suo tono pacato e quel fare amabile, che attraggono e infondono pace -. Quello invece con cui ormai sono conosciuta, Aletta, mi fu dato da Chiara Lubich il giorno stesso in cui la conobbi, invitata ad un ritiro spirituale. Era il 7 gennaio del 1945, la guerra volgeva ormai alla fine, ed avevo vent’anni”. Aletta, “piccola ala”: quale programma di vita lascia immaginare questo nome? È una storia incantevole che sa più di cielo che di terra, e ci riporta agli albori del Movimento dei focolari e al primo gruppo di giovani che seguirono Chiara “senza più voltarsi indietro”. Quella domenica, da Martignano, il suo paesino natale, Vittoria giunge a Trento insieme ad una conoscente; bussa al n° 2 di piazza Cappuccini, la “casetta” che ospita Chiara con alcune sue compagne: in realtà un modestissimo alloggio di una stanza più cucina (ancora non si parla di “focolare”). “La prima che vidi fu Natalia Dallapiccola, che impastava il pane perché una delle altre soffriva il mal di stomaco e non riusciva a mangiare quel pane color cioccolata che pareva gomma, datoci ancora con le tessere. Poi, siccome ci si doveva preparare per uscire, entrando in un’altra stanza vidi Chiara che pettinava Graziella De Luca e le attorcigliava le treccione bionde attorno al capo come una corona, perché – mi spiegò lei con la massima semplicità – era “diventata come una regina”. Non capii e rimasi in silenzio, profondamente toccata da quella scena impregnata di divino. Poi la spiegazione: pochi giorni prima Graziella si era consacrata a Dio”. Poco dopo Vittoria partecipa con le nuove amiche ad un ritiro spirituale del Terz’ordine francescano. Talmente nuovo, infatti, è a Trento il carisma dell’unità che per muovere i primi passi ha bisogno del “mantello”, per così dire, di un’associazione già presente nella chiesa. Per primo parla un frate, cui Chiara fa seguire un suo commento. “Non ricordo – continua Aletta – le parole testuali di lei; so solo che parlava di Dio che, dopo averci creati per amore, ci vuole eternamente con sé. Questo mi è rimasto in mente: vivere su questa terra amando lui, per poi amarlo per sempre in paradiso” Quel paradiso che da un momento all’altro poteva aprirsi per noi a causa delle bombe che cadevano su Trento”. Ormai è fatta! Accolta nel Terz’ordine anche lei, nel pomeriggio di quello stesso giorno Vittoria riceve da Chiara un nome nuovo, come si usa appunto fra i terziari francescani: Ala di Gesù abbandonato (da cui poi “Aletta”). “Per volare alla piaga di Gesù abbandonato – così spiega Chiara -, per essere il suo paradiso”. Si riferisce al misterioso dolore di Gesù in croce, che le prime focolarine vorrebbero “consolare” realizzando fra loro e attorno a loro quell’unità per la quale egli ha dato la vita. Nessuna meraviglia se a quell’annuncio la ragazza rimane sconcertata: “Erano parole troppo forti per me. Avrei capito solo in seguito. Una cosa era certa: quel colpo d’ala c’era stato e mi aveva trasportata in Dio, scavalcando il problema della mia vocazione”. A questo punto occorre fare un salto indietro nel tempo. Tutta la sua infanzia fino ai 17 anni Aletta l’ha trascorsa in Francia, dove era emigrata con i suoi, gente semplice e laboriosa, bravi cristiani con un forte senso del dovere” Unico cruccio, per lei, quello di sentirsi straniera, diversa dalla gente del posto. Episodio singolare in una vita del tutto normale, verso i 14 anni – mentre frequenta ancora la scuola – una mattina avverte all’improvviso che Dio la chiamata a donarsi totalmente a lui. “Così forte fu l’impressione che, nel caso fossi stata atea, avrei dovuto ricredermi. So soltanto che, inesperta di certe cose, mi presi un grosso spavento. Tanto più che, a quel tempo, la consacrazione a Dio faceva pensare al convento, mentre io non mi sentivo assolutamente fatta per la clausura. “Che fare? Provavo un forte timore a sottrarmi a quella chiamata (i miei mi avevano sempre insegnato a non dire mai di no a Dio); per mettermi l’animo in pace, accantonai il problema con la giustificazione che ero ancora molto giovane, ripromettendomi intanto di essere ancora più brava”. Tutto inutile: in quel tempo di attesa durato alcuni anni, di tanto in tanto in fondo all’anima avverte che no, non basta essere “più bravi” quando Dio ti vuole tutto per sé. Nel frattempo la giovane è tornata con i suoi nel Trentino; e a questo punto riprendiamo il filo del nostro racconto” Già all’indomani di quella domenica speciale, Aletta si ripresenta all’alloggio di piazza Cappuccini. “Quando Chiara mi vide, esclamò: “Hai proprio dato un colpo d’ala, ci sei!”. Era proprio così, ma non risposi nulla: un po’ perché di carattere riservata, un po’ perché lì c’era solo da contemplare Dio nella assoluta semplicità della vita di quelle ragazze”. Anche quel giorno, sotto la minaccia dei bombardamenti, devono affrettarsi verso il vicino rifugio: una specie di buco nella roccia senza alcun muro di protezione, divenuto però – durante gli allarmi aerei – un luogo di riferimento per altre ragazze che fanno anch’esse parte del nascente movimento. Appena passato il pericolo, stando fuori del rifugio, “Chiara chiese ad un’altra di raccontarmi “la nostra avventura”. E quella: “Guarda, tutto passa, solo Dio resta; e noi che abbiamo una vita sola, e breve anche quella, abbiamo deciso di spenderla bene, donandola a lui. È Dio il nostro ideale, Dio che vogliamo avere in questa vita e anche nell’altra”. “Poche parole, ma sufficienti per confermarmi che non era il convento la mia strada: mi ci trovavo già “dentro”, e Dio mi aveva preparata con questo incontro”. Da allora, venendo a lavorare da un paesino di montagna a circa mezzora da Trento, Aletta prende l’abitudine di trascorrere la pausa pranzo nella “casetta” di piazza Cappuccini. “Non c’erano ancora le strutture del movimento, così come si sarebbe sviluppato in seguito; c’era solo la luce di un ideale che ci aveva conquistate e volevamo seguire, portando avanti però – almeno per il momento – la vita di sempre: chi studiando, chi lavorando in ufficio o in casa. “Chiara ad esempio – ricorda ancora Aletta – era iscritta all’università di Venezia, ma non potendo frequentare a causa della guerra, studiava a casa; per cui aveva il tempo di far da mangiare per quelle di noi che andavano in ufficio. Preparava anche dei pentoloni di minestra per i poveri che venivano a trovarci, o da portare magari nel rifugio, allorché suonavano gli allarmi. La sua vita non è che fosse soltanto contemplazione, luce di Dio da donare agli altri: era anche fatta di cose concrete, semplici, quotidiane “. Ben presto però, a causa del notevole afflusso di persone attratte dall’ideale dell’unità, si rende necessario in casa un aiuto per far fronte a tante incombenze pratiche. E una sera Chiara propone ad Aletta di essere lei questo aiuto, invitandola perciò a stabilirsi da loro. “Non mi parve vero! Accettai, naturalmente. Poco dopo comunicavo in famiglia la mia decisione; l’indomani lasciai il lavoro e iniziai l’esperienza vera e propria del focolare. “Per la verità, già dal primo giorno in cui vi avevo messo piede, ero partita in quarta: anche se, da brava trentina, senza troppo spreco di parole, apparentemente adagio”. Ma cosa vuol dire per Aletta aver scelto Dio? “Anche prima – osserva -, cercavo di amarlo, a causa di quella chiamata a 14 anni. Ma non sapevo bene come fare; pensavo che solo i santi ne fossero veramente capaci. Chiara, invece, mi ha inculcato che io, proprio io, potevo amare Dio subito, purché lo volessi. E come, concretamente? Facendo la sua volontà nel momento presente, soprattutto amando Gesù nel prossimo. Quel Dio a cui mi ero donata non era più nelle nuvole, ma a portata di mano in ogni fratello. Semplice, no?”. Questi gli inizi. “In seguito ci sono state tante prove, fisiche e spirituali; però ormai sapevo come superarle (allora, sì, ho capito l’abbandono di Gesù e la fecondità del dolore accettato per amore); e poi non avevo tempo per guardare indietro o da perdere. C’era solo da andare avanti amando”. Sono parole che condensano una intera vita spesa per Dio e il prossimo: dal piccolo Trentino catapultata dapprima in Germania, poi in Turchia, Grecia, Cipro, Medio Oriente, Libano” Lunghi anni a stretto contatto con ortodossi, ebrei, musulmani di paesi in pace apparente o – come nel paese dei cedri – lacerati dagli eventi bellici: a condividere, magari nei rifugi (ancora una volta!) le angosce e le sofferenze della gente, sempre e comunque impegnata a costruire con tanti altri la fraternità portata da Cristo. Ce ne sarebbe da raccontare. E sarebbe un altro affascinante capitolo della storia di Aletta.

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