Un cigno per Lohengrin

Grande apertura di stagione per l'anno wagneriano alla Scala a Milano. Regia di Claus Guth, dirige Daniel Barenboim, con Jonas Kaufmann nei panni del protagonista, Anja Harteros e René Pape
Teatro La Scala a Milano

A Milano, il Teatro alla Scala ha aperto l’anno wagneriano con Lohengrin, “opera romantica in tre atti”, anno il 1850. È un Wagner che, nel mito del cavaliere figlio di Perceval, custode del Graal, tratteggia la storia dell’amore felice e infelice, della possibile impossibilità dell’affetto fra il cavaliere ed Elsa. È il tema del possesso-non possesso, della disillusione che toccherà poi i vertici del Tristano. In un certo senso, la favola di Amore e Psiche rivisitata sotto l’ottica di un cristianesimo medievale visto con la mente e la fantasia di un Wagner ancora romantico e fatale.

La musica è di una bellezza rara. Fin dal preludio, vera estasi mistica, dove Wagner immagina nei violini “divisi” spiriti angelici che scendono e salgono in cielo, come la scala biblica di Giacobbe. Ma il pessimismo del compositore non permette una conclusione felice. Lohengrin, il cavaliere che arriva su un cigno, da un luogo misterioso, viene trafitto nel suo mistero dalla curiosità di Elsa. E ritorna là da dove è venuto, nel regno mistico del castello paterno.

Echi di Bellini e Weber, di Meyerbeer e di Beethoven si notano nell’opera qua e là – come nei lunghissimi, estenuanti ensemble di fine atto –, ma personalizzati da una ispirazione che vuole bere dal calice dell’amore fino a non saziarsi mai.

La regia di Claus Guth inscena l’opera negli anni cinquanta dell’Ottocento, fra cilindri e frac, un caseggiato operaio e un Lohengrin scalzo e in gilè. Non stona con la musica, anche perché il protagonista è un attore-cantante formidabile, cioè Jonas Kaufmann. Mima il cigno nel suo nascere e nel suo finire col solo corpo, per cui il mitico animale diventa lui stesso, anche se un giovane volteggia qua e là con una sola ala candida. Kaufmann ha voce morbida, usa legati dolci e pianissimi morbidi, acuti svettanti e virili. Cosa rara, oggi fra i tenori. Lo seguono l’Elsa di Anja Harteros, lirica e dolente, e il re di René Pape così armonioso. Un coro perfetto come intonazione e ritmo fluente e l’orchestra diretta da un esperto come Daniel Barenboim delineano uno spettacolo che ha della magia. Ci sono certi ori negli ottoni, certe carezze nei flauti e certo sole nei violini e nei violoncelli che danno i brividi. Nessuno si accorge che la scena dal medioevo è spostata alla modernità, perchè la regia è attenta alla musica, anche se non risparmia la  fatica agli interpreti. Jonas deve cantare seduto o steso a terra una parte impervia negli acuti come nelle note gravi.

Ma l’unione delle varie parti fa sì che nulla di stonato sia messo in evidenza. Una grande apertura di stagione. E un successo meritato.

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