Un cervo bianco

Pronto: Andrea Sciffo. Quando ci sentiamo al telefono, che sia lui o io a chiamare, ho sempre la sensazione dell’oggetto, anzi del soggetto, misterioso, stante quasi in incognito nella società dei consumi, anzi dei consumati, e dei comfort, anzi (diceva già Montale), dello sconforto; nel penitenziario, diceva Pasolini, del consumismo. Ha l’aria di essere un giovane uomo di oggi – e lo è, impegnatissimo -ma potrebbe tranquillamente provenire, con attualizzazione fantascientifica, o solo con un battito d’occhi (dell’anima), dall’Antiochia dell’ardente Ignazio, là dove i cristiani ebbero per la prima volta il loro nome; o dalla Roma dell’altrettanto ardente altro Ignazio di Loyola, entrambi disposti a farsi niente, grano l’uno, cadavere l’altro, come lui Sciffo, niente cristiano nel gonfio niente consumistico; o, con pari estraneità- familiarità ai tempi, dalla Milano novecentesca dei suoi cari precursori, Quadrelli, Samek Lodovici. Non per caso ho nominato tre luoghi: Sciffo è essenzialmente – ma non subalternamente – legato ai luoghi, perché è uno scrittore cristiano, cioè figlio dell’Incarnazione, che è la più cartesiana intersezione, direbbe l’Eliot dei Four Quartets, del senza tempo col tempo. E questa intersezione è sempre anche un luogo, prima un villaggio della Galilea poi – per estensione dell’Incarnazione al dovunque – tutti (ciascuno) i luoghi della terra. È vero che, avverte sempre Eliot, comprendere questa intersezione-Incarnazione (L’accenno mezzo indovinato, il dono mezzo capito) è un’occupazione da santi, ma Sciffo è ben incamminato sulla via dei suoi luoghi storici e geografici, culturali e spirituali. Ecco spiegata, in poche mezze parole, la sua vocazione-attitudine (molto peguyana: anche Péguy camminava molto) a percorrere, nella letteratura di cui si fa contemporaneamente lettore e scrittore, insieme tempi e spazi; in modo tale che la sua scrittura non possa mai essere narrazione senza rivelarsi contestualmente descrizione, storia senza mai aprirsi in geografia, cronaca (di una gita scolastica, ad esempio) senza farsi anche illustrazione; e per questa via, possa, debba, poiché illustrare vale illuminare, cogliere la luce delle cose e da questa, con questa celebrare, senza averne l’aria ma perciò tanto più fermamente, la lode; che è la stessa, che è essa stessa, descrizione e illustrazione del Creatore e Narratore di tutte le cose. Il precedente libro era appunto una lode: Per voce e paesaggio è didascalia di un concerto a cui pongono mano la creatura (ciascuna e tutte insieme, come sapeva il grande Medioevo: cum resurget creatura…) e il suo Autore. Quanto ciò possa risultare insolito alla distrazione (distracted from distraction by distraction: ancora Eliot, genialmente) imperante, è ozioso ripeterlo, ma è utile sottolineare quanto possa fare da sveglia alla distrazione, appunto. Ho scritto altrove che Sciffo, in quel precedente libro, parlando d’altro, sembra sempre rammentare al lettore: Ricordati della tua dignità , eco all’antico-perenne Agnosce, christiane, dignitatem tuam di san Leone I (non per caso Magno). Ora, eccoci a Il cervo bianco (l’animale è simbolo antico della perenne ricerca non solo umana ma cosmica, ve- di san Paolo ai Romani 8,22, del Graal ovvero di Cristo), che pervicacemente unisce verità e paesaggio nei due racconti- itinerari, facendo tracimare (mi veniva da scrivere: trasalire) dalla leggenda la storia, dal quotidiano l’eterno , che Dostoevskij scrisse, in una delle sue ultime pagine di diario, di aver avuto a cuore. Nello spazio della gita scolastica – che si svolge come paideia, dialogo educante che nutre occhi mente e anima: che altro erano i Dialoghi di Platone se non grandi viaggi di paideia? – oppure in quello di una giornata estiva affollata di presenti vicini e presenti lontani, Adalbert Stifter e il ragazzino autistico, Katherine Mansfield e Wordsworth e i due giovani partner incomunicabili, avviene la vita stessa, nei suoi tempi-luoghi di aldiqua-aldilà. Nel primo spazio disinvoltamente s’incrociano quelli che per convenzione d’ignoranza chiamiamo i vivi e i morti, Eugenio Corti e Augusto Del Noce, a diffondere granelli di senapa (rubo a Sciffo) di sapienza, di musica, di scienza non ideologica, di letteratura che supera la coscienza di se stessa. Nel secondo, aldiqua e aldilà più che impastarsi si amalgamano omogenei, a rivelare che ciò che vive, ciò che è attuale (cioè in atto!, da non confondere con contemporaneo, che in atto può essere, ma anche no, come spesso gli accade), è sempre presente (ancora Eliot), e il Vangelo). La differenza, tra ciò che si vede ed è poco, e ciò che non si vede ed è il più, come tra ciò che è vivo e ciò che è morto, sta nella bellezza invisibile a cui la visibile è trampolino, insegnando sia che la vita è un tessuto di incontri, sia una cura del particolare, da vedere e da fare, possibile solo a chi, operando, dimentica di sé e confida in Altro. A provare sul testo quanto asserisco, e che potrebbe suonare al lettore presuntuoso (in Sciffo e in me) o eccessivo, cito la grande finezza spirituale-letteraria con cui è descritto l’addormentarsi della dolorosa madre adottiva del figlio autistico: Allungando il libretto sul comodino, percepisce il silenzio della valle che da fuori risponde al muto schianto, interno al suo cuore, con lo scroscio gelato del ruscello e il fischio di un gufo tra gli abeti. (…) Non capisco niente conclude con un sottovoce che suona molto simile al bisbiglìo delle vecchiette mentre recitano il rosario . Chi può negare che qui vi è il temporale e l’eterno, e il bello invisibile nella sensibile desolazione? Alla fine del secondo racconto-itinerario del libro, troviamo la stupefacente notizia: Da qualche parte, sull’altopiano, un rarissimo rododendro sta fiorendo, come Pascoli diceva, nel Gelsomino notturno, cresce l’erba sopra le fosse . Non sono, non è un presente di abitudine, come direbbero sbagliando i grammatici, è l’evento unico e moltiplicato della creazione che in sé ospita l’intersezione del senza tempo col tempo e del senza luogo col luogo: poiché la kénosi del Verbo si è incarnata per la Redenzione ma si è anche, prima, e poi sempre, prodigata per la Creazione; e dentro ci siamo tutti, sempre, fiori ed esseri umani più o meno difettosi, rivolti dalla povertà alla pienezza e alla meta. Giovanni Casoli A. Sciffo, Un cervo bianco, Marna, 7,00.

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