Miguel Díaz-Canel è il nuovo presidente

Dopo un processo elettorale con una partecipazione popolare ineccepibile (ma nei fatti pilotato dal regime), Cuba sarà governata dal primo presidente nato dopo il trionfo della Revolución. Ma Raul Castro è ancora segretario del partito...

Serio, intelligente, leale, capace, metodico, indefesso lavoratore. Così descrivono a Cuba il neo presidente Miguel Díaz-Canel, e non solo nell’ambito dei fedelissimi del Partito comunista. Il primo capo di Stato e di governo ad essere nato dopo la vittoria della rivoluzione è stato eletto giovedì dalla recentemente rinnovata Assemblea nazionale del potere popolare, il Parlamento unicamerale dell’isola, con 603 voti su 604. Sarà in carica per cinque anni e potrà essere rieletto una sola volta. Ma attenzione: Raúl Castro sarà primo segretario del partito fino al 2021, organismo che la Costituzione riconosce come «forza dirigente principale della società e dello Stato», e lo stesso Díaz-Canel ha subito affermato che il suo predecessore «condurrà le decisioni di maggior importanza per il presente e per il futuro della nazione».

Si tratta di un cambio di testimone simbolicamente forte ma le cui conseguenze politiche ed economiche a priori non sembrano altrettanto impressionanti. Ne è la prova il diffuso sentimento di indifferenza che si percepiva nelle strade cubane, che la celebre blogger e giornalista Yoani Sánchez attribuisce soprattutto a tre fattori: «La pessima situazione economica, che obbliga la maggior parte della popolazione a concentrarsi, ogni giorno, sulla propria sopravvivenza, il pessimismo nato dalla convinzione che nulla cambierà solo grazie a un volto nuovo nelle foto ufficiali, e il fatto che la gente non conosce altri scenari se non quello creato dalla “Generazione Storica”, e fa fatica a pensare che ci sará vita dopo di essa».

Il presidente quindi non è più un Castro, e neppure uno dei barbudos della Sierra Maestra, al comando di Fidel, anche se è da anni pupillo di Raúl, e dovrà quindi capitanare l’esecutivo senza l’autorità morale dei fondatori della Revolución. E tra i 30 membri del Consiglio di Stato di cui fa parte, sono rimasti solo due militanti storici. Ma la novità più significativa, secondo Maria C. López, responsabile della Comunicazione dell’arcidiocesi di Santiago di Cuba, «è la presenza di tre donne su cinque come membri della vicepresidenza».

Che profilo presenterà, una volta in azione, il nuovo presidente? Nel discorso di insediamento, oltre a tessere le lodi della Rivoluzione ha dichiarato che «non ci sarà spazio per chi vuole una restaurazione capitalista». Per alcuni analisti, sarà un riformatore cauto, che cercherà di portare avanti un’agenda propria, basata sulla ricerca di modelli efficienti e non disdegnando di guardare oltre confini (da ministro dell’Università ebbe modo di captare altri modelli accademici). Per altri, poco più di un’ubbidiente marionetta mossa da Castro. Senz’altro non ha il carisma di Raúl – che già ne aveva molto meno di Fidel –. Ma il futuro dell’isola dipenderà molto dalla sua abilità politica, dal tatto con cui metterà in moto riforme già approvate ma non ancora attivate e dall’equilibrismo con cui ascolterà la cupola del partito e darà a questa almeno l’impressione di fare gioco di squadra.

Miguel Díaz-Canel è nato il 20 aprile 1960 a Placetas, una cittadina di 70 mila abitanti nella provincia di Villa Clara da padre operaio meccanico e madre maestra elementare. Laureato in Ingegneria elettronica, ha cominciato ad esercitare la professione durante il servizio militare obbligatorio, per passare poi alla docenza universitaria nello stesso ateneo dove aveva studiato, a Santa Clara, dove cominciò anche a militare nella sezione dei laureati dell’Unione dei giovani comunisti. Rappresentando l’Unione, fu poi inviato in Nicaragua, dove in quegli anni si recavano militari, medici ed altri laureati inviati dal governo cubano per appoggiare la causa sandinista. «Lì organizzava i comitati di base giovanili e svolgeva un lavoro politico-ideologico allo scopo di rafforzare le posizioni e i postulati dei guerriglieri sandinisti» e del loro braccio politico, come ha ricordato alla Bbc Arturo López Levy, politologo dell’Università del Texas. Di ritorno a Cuba, entrò presto a far parte del Comitato centrale del partito, organismo che poi lo nominò primo segretario del Comitato provinciale nella sua terra natale. In quegli anni, nei quali tra l’altro aprì il primo locale notturno aperto alla comunità Lgtb, cominciò a farsi notare dall’alta dirigenza del Pcc. Impressionato, tra l’altro della grande capacità organizzativa e dalla “solidità ideologica” di Díaz-Canel, Raúl Castro lo fece designare membro del Bureau politico nazionale nel 2003. Il gioco era fatto. È bastato mantenere un profilo basso e dimostrare lealtà assoluta al “Comandante” e a suo fratello per non finire come le “giovani promesse” Carlos Lage, Roberto Robaina o Felipe Pérez-Roque, dirigenti defenestrati improvvisamente per aver preso iniziative che i Castro interpretarono come atti di slealtà. Dopo tre anni al comando del ministero dell’Università, settore che riformò con un certo successo, nel 2012 divenne vicepresidente del Consiglio dei ministri. Virtualmente, il presidente in pectore.

Il processo elettorale che ha eletto i 605 parlamentari, il presidente e gli altri 29 membri del Consiglio di Stato (Diaz-Canel dovrà scegliere i ministri) è formalmente basato sulla partecipazione popolare, ma é nei fatti fortemente condizionato dall’intellighenzia del regime. Non esiste campagna elettorale, la metà dei candidati sono scelti a livello locale da “assemblee di base” popolari con un unico voto e il resto da organizzazioni sociali ideologicamente affini al governo. Secondo il quotidiano Gramma, organo ufficiale del Pcc, i 605 candidati, votati (ovvero, approvati, giacché il voto era un semplice sì o no alla lista confezionata con la prima elezione del novembre scorso) sono frutto di oltre 12 mila proposte presentate in un migliaio di riunioni in tutto il Paese.

Tra le grandi sfide che attendono al varco Díaz-Canel, quella economico-sociale è la più pressante. Dopo le dimissioni di Fidel, Raúl Castro aveva messo in moto inedite riforme, che hanno aperto timidamente la porta al settore privato e reso possibile ai cubani attività prima impensabili, come aprire piccoli negozi o mettersi in proprio come barbieri e lustrascarpe, comprare e vendere automobili e case, alloggiarsi in albergo nell’isola e viaggiare all’estero. Il Pil cresceva a buon ritmo (4,4 % nel 2015), ma da allora è sceso a + 0,5 %, e anche se una bella fetta del debito estero è stata condonata dal Club di Parigi, l’economia soffre, soprattutto a causa della prostrazione di quella del suo principale alleato interazionale dopo la caduta dell’Urss: il Venezuela. La ventata di speranza che si respirava grazie agli accordi Obama-Castro patrocinati dal Vaticano, con la ripresa di collegamenti aerei e quindi di un impulso al turismo, patti bancari ed altre misure finanziarie si è esaurita con il dietrofront di Donald Trump e le opportunità di investimenti dall’estero per il momento restano una chimera. Il mese scorso, lo stesso Raul aveva ammesso «errori ed insufficienze» nella messa in pratica delle riforme.

Un altro problema che si percepisce ogni giorno è l’anomalia della doppia moneta in circolazione. Lo Stato paga gli stipendi in pesos cubanos (Cup) – in un ambito di “socialismo reale”, il 75 % della forza lavoro è composta da funzionari pubblici di vario tipo – ma i prezzi con cui i cittadini pagano ciò che comprano sono in pesos cubanos convertibili (Cuc): una sfasatura micidiale, perché un Cuc è pari a 25 Cup. E anche se l’educazione e la sanità sono gratuite, i portafogli dei cubani ne hanno risentito eccome. L’obiettivo dell’unificazione monetaria era già all’ordine del governo di Raúl, ma non è un traguardo facile. Se si facesse tutto d’un colpo, le aziende statali, che tengono la contabilità in Cuc (che teoricamente vale quanto il dollaro), che vivono sulla propria pelle questa distorsione – anche perché il Cuc non è nel mercato monetario internazionale, il che complica anche le esportazioni – secondo gli esperti, fallirebbero. La citata crisi con gli Usa e la sfida di un accesso a Internet limitato alle ditte statali e alle piazze wifi free ed altrimenti proibitivo (un dollaro e mezzo l’ora, quando gli stipendi non superano i 30 dollari mensili) sono le altre sfide che il nuovo esecutivo si troverà di fronte.

Sul versante scabroso dei diritti umani, vedremo in che misura si continuerà ad offrire possibilità di mediazione alla Chiesa cattolica locale, che, come ricorda Maria C. López, ottenne le visite di papa Benedetto e di Francesco e la scarcerazione di numerosi prigionieri politici. E se e come si lascerà spazio alla società civile fuori dal partito unico, il che, per ora, è poco probabile, perché troppo rischioso per un presidente in erba.

 

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