Un calcio alla povertà
A Milano i Mondiali di calcio dei senza fissa dimora: quando un pallone aiuta a sperare.
«Se i leader politici potessero vedere e sentire l’unione delle persone emarginate provenienti da tutto il mondo guarderebbero alla povertà e all’esclusione in modo differente e le loro decisioni sarebbero completamente diverse», afferma Claudio, brasiliano. Dermot invece è irlandese: «Far parte di questo progetto mi ha aiutato a mettere insieme la mia vita. Ora mi sento più sicuro: è la miglior cosa che io abbia mai fatto». «È un’esperienza fantastica: ora sento di essere qualcuno e di appartenere alla società», conferma Frantisek, slovacco. «Grazie all’Homeless World Cup, la mia vecchia vita non esiste più», replica Tracey dell’Australia.
Sono quattro dei circa 480 giocatori di 48 nazioni protagonisti della Homeless World Cup, la coppa del mondo di calcio di strada (campo piccolo, quattro contro quattro con cambi volanti, due tempi di sette minuti) riservata alle persone senza fissa dimora, organizzata, per la sua settima edizione, a Milano, al Parco Sempione.
Il torneo mondiale, partito nel 2003 e promosso dalla creatività di Mel Young, un lungimirante e geniale imprenditore scozzese, e dalla sua collaborazione col collega austriaco Harald Schmied, usa il calcio come catalizzatore per incoraggiare le persone senza fissa dimora a cambiare la loro vita. Ma anche per sensibilizzare governi, media e cittadini a trovare soluzioni sempre più efficaci per combattere la povertà in tutto il mondo. Nel ’93 Mel è stato il co-fondatore in Scozia di The Big Issue, un settimanale distribuito e venduto dagli homeless nelle strade scozzesi che oggi conta 40 mila copie. Grazie al successo della rivista, Mel è riuscito a fondare la International Network of Street Papers, rete internazionale con più di 80 giornali di strada venduti in ogni continente. La circolazione annuale di questi giornali raggiunge oltre 30 milioni di copie, aiutando così ogni anno cento mila senza tetto o persone disoccupate nel mondo.
«La povertà non dovrebbe esistere nel nostro mondo – spiega Mel Young –, e i più poveri dei poveri sono proprio quelli che non hanno nemmeno una casa». L’imprenditore, che ha già ricevuto numerosi riconoscimenti e lauree honoris causa dal mondo economico, ha individuato nel calcio uno strumento estremamente efficace, capace di mettere in palio la possibilità di voltare pagina e ricominciare. «Il calcio è semplice, è facile coinvolgere le persone ed è universale. Chi è sempre stato escluso diventa parte di una squadra, inizia ad avere uno stile di vita più salutare, una disciplina, e torna ad avere rispetto e stima per sé stesso. Quando i giocatori arrivano alla coppa del mondo, orgogliosi di rappresentare il loro Paese, centinaia di persone (a Melbourne cento mila in una settimana n.d.r.) fanno il tifo per loro e la loro vita cambia per sempre.
«Proprio l’altro giorno ero alla fermata dell’autobus e l’autista mi ha riconosciuto e salutato. Era un ex giocatore. Ora ha un lavoro, una casa e una famiglia».
Il progetto legato alla Homeless World Cup sta registrando risultati importanti di recupero sociale in molti Paesi: tre persone su quattro hanno cambiato vita dopo l’evento, riuscendo ad uscire dalla dipendenza da droga o alcool. Alcuni sono riusciti a trovare casa o lavoro, a proseguire gli studi, a diventare giocatori o allenatori, a sistemare relazioni interpersonali fino a diventare imprenditori sociali.
Gli aspiranti giocatori partecipano a tornei nazionali allenandosi in strutture dedicate e ritrovando positivi rapporti sociali: alcuni poi vengono scelti per rappresentare il proprio Paese, anche sulla base del livello di coinvolgimento che dimostrano. A selezionare i giocatori della nazionale italiana, unica vincitrice della competizione per due anni di fila e che a Milano sfiderà i campioni uscenti dell’Afghanistan, trionfatori a Melbourne, è Bogdan Kwappik, polacco di 37 anni: con il suo pulmino gira campi nomadi e strutture di accoglienza in cerca di nuovi talenti e di ragazzi motivati a cercare una via di riscatto. Nella sua squadra multietnica – «una vera famiglia», precisa con orgoglio – hanno così trovato una maglia azzurra persone come Angelo, respinto dal lavoro e dalla famiglia per seri problemi di dipendenza dall’alcool; come Pietro, arrivato in Italia dal Togo come rifugiato politico, attualmente ospite in un centro della Caritas; come Bryan, ecuadoregno coinvolto in Italia in una pericolosa banda di ladinos; o come Florian e Giorgio, rumeni, che vivono in due campi rom della cintura milanese, con complesse difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro, ma non nella formazione titolare.
L’ultimo arrivato è Mervin, arrivato in Italia dalle Seychelles cinque anni fa, dopo un’infanzia poverissima, ed oggi talentuoso attaccante in maglia azzurra: «I Mondiali – spiega entusiasta – rappresentano per me un’importante opportunità per dimostrare il mio valore sul campo, ma anche un modo per promuovere la condizione dei senza tetto e creare la consapevolezza che, non potendo scegliere la propria origine o condizione sociale, si può migliorare sé stessi, anche grazie allo sport».
Il ritiro premondiale lo hanno svolto a L’Aquila, per condividere la loro condizione con i “nuovi” senzatetto del terremoto: quattro ragazzi aquilani sono ora a disposizione della squadra o pronti a sostituire giocatori infortunati delle diverse rappresentative.