Per un “buon” caffè

Elisabetta Rossi ha dato inizio a un’attività di specialty coffee in Germania garantendo un equo compenso ai produttori e sostenendo progetti di sviluppo.

C’è una sola donna tra coloro che hanno superato le qualificazioni per i campionati tedeschi di tostatura del caffè – sì, esistono anche quelli, e per gli addetti ai lavori sono importanti. Da due anni è sempre la stessa, ed è italiana: Elisabetta Rossi, di origini udinesi, che nel 2016 ha avviato insieme al marito Johannes Epping – ragione del suo trasferimento in quel di Mannheim – un’attività di specialty coffee. Un segmento ancora poco noto in Italia, più noto all’estero; e che si riferisce a tipologie di caffè che superano determinati standard di qualità su tutta la filiera, valutati da un apposito ente internazionale. Agàta – questo il nome dei due punti vendita aperti in città, dove viene servito sia caffè da consumare in loco che da asporto – non è però un negozio di caffè qualsiasi: ispirato all’Economia di Comunione (EdC), basa il commercio dei chicchi sul rapporto diretto con i produttori, contratti di fornitura equi, e sostegno a progetti di sviluppo in loco. Un caffè che, per dirla con Elisabetta, vuole essere “buono in tutti i sensi”.

La storia inizia quando Elisabetta e Johannes, ancora fidanzati, lavoravano nel settore della progettazione europea per i giovani imprenditori. «Amavo molto questi progetti – riferisce Elisabetta –, ma mi mancava la continuità: quando finivano, non avevamo mai modo di toccare con mano se e quali risultati avessero portato, come queste imprese proseguissero poi la loro attività. Era come se mi mancasse un tassello. E così, una volta sposati, con Johannes abbiamo deciso di fondare la nostra azienda» [e questa volta senza fondi europei, ndr]. 

La scelta è caduta su un negozio di specialty coffee in virtù di un “colpo di fulmine” avuto due anni prima, partecipando ad un corso di formazione a Firenze, tenuto dal noto esperto Andrej Godina: «Lì mi si è aperto un mondo, un mondo in cui ho capito che volevo restare – prosegue Elisabetta –. Così ho poi partecipato ad altri corsi, per acquisire le professionalità necessarie. Da italiana, ho sempre bevuto caffè spesso e volentieri, ma senza pormi domande né rispetto alla qualità, né rispetto alla filiera che sta dietro ad ogni chicco: invece così ho scoperto non solo tutta la ricchezza sensoriale di questa bevanda, ma anche la vita dei produttori». Vita che, spesso, è tutt’altro che facile: «Normalmente il prezzo del caffè è determinato da quotazioni internazionali, ed è ben lontano dal garantire un compenso equo – spiega –. Non solo, ma spesso i produttori stessi non hanno nemmeno gli strumenti per poter capire quale sia davvero questo compenso equo, né tantomeno per ottenerlo. Per questo, nell’avviare l’attività, ci siamo posti due “pilastri”: il primo è che il caffè superi gli standard di qualità per essere definito specialty; e il secondo è il contatto diretto con i produttori, cosa che in questo campo né il venditore né il consumatore purtroppo hanno. Ciascun caffè ha un nome e un volto, letteralmente, perché su ogni confezione che vendiamo c’è il nome di chi l’ha prodotta».

Negli anni Agàta ha così costruito la sua rete di accordi con i produttori; inizialmente appoggiandosi ad altri operatori di settore, che hanno portato Elisabetta e Johannes direttamente nelle piantagioni latinoamericane, e poi anche autonomamente. Gli accordi prevedono non solo la determinazione di eque condizioni di fornitura del caffè verde, ma anche una quota da destinare a progetti di sviluppo determinati in base alle necessità locali. «In Honduras, ad esempio, c’era bisogno di fare formazione per i coltivatori – racconta –: così abbiamo avviato un’accademia del caffè investendo in una tostatrice, e dato gli strumenti per valorizzare il prodotto. In Brasile ci è stata segnalata la necessità di sostenere i figli dei produttori negli studi; o in El Salvador quella di finanziare, tramite una quota compresa nel compenso che riconoscevamo nell’acquistare il caffè, visite mediche per i lavoratori. In Perù poi, in collaborazione con una ong italiana, partecipiamo ad un progetto di agricoltura sostenibile formando i contadini alla permacoltura». E dal racconto, c’è da dire, traspare una passione che fa venire voglia di un caffè anche a chi non ne beve: è significativo che Elisabetta, nel citare ciascuno di questi progetti, chiami sempre i produttori per nome, a testimonianza del rapporto che li lega.

Il caffè, come detto, viene acquistato verde; per essere poi tostato in Germania, direttamente da Elisabetta. «Lavoro su un impianto che serve entrambi i punti vendita – spiega –, e per anni ho fatto tutto da me: solo da poco ho un’altra persona che mi affianca». La giovane ha così affinato le sue capacità di tostatrice, tanto da partecipare ai campionati nazionali: «È la seconda volta, e per la seconda volta sono l’unica donna: è un mondo piuttosto maschile e maschilista – osserva –. Ciò non significa che non sia un mondo entusiasmante: incontrare i colleghi e confrontarmi con loro è davvero appassionante». Al momento in cui scriviamo, i campionati non si sono ancora svolti – sono previsti per la seconda metà di maggio: ma, comunque vadano, non toglieranno ad Elisabetta la gioia di essersi cimentata nelle diverse prove – dall’analisi del caffè alla tostatura vera e propria. «È una bella sfida – riconosce – perché si tratta di lavorare su una tostatrice che non conosco, e su varietà di caffè non rese note prima».

E parlando di sfide, ce n’è un’altra che Aqàta sta affrontando: l’apertura del secondo punto vendita, avvenuta a novembre 2021 in piena pandemia. «Ce l’ha chiesto l’amministrazione cittadina di Mannheim – racconta Elisabetta –, che voleva inserire un’attività di questo tipo all’interno di uno spazio di coworking di sua proprietà. Per due volte abbiamo detto di no: come pensare ad aprire un nuovo negozio, in un momento in cui molti lavorano da casa e quindi non frequentano i locali? Poi però abbiamo ricevuto questa richiesta una terza volta, motivata con la volontà di inserire noi e non altri, in virtù dell’approccio sociale che abbiamo. E così abbiamo accettato».

C’è poi una seconda sfida che Elisabetta individua, «quella della comunicazione. Se vendo un caffè che ha un prezzo nettamente maggiore rispetto a quello che si può trovare al supermercato, il cliente deve sapere con precisione il perché. E su questo abbiamo sempre avuto buoni riscontri: ci fa un grande piacere vedere come questa consapevolezza stia prendendo sempre più piede, e sempre più persone apprezzino lo specialty coffee. Tanto che ci capita di ricevere anche clienti che ci hanno conosciuti grazie ai siti e alle reti social dedicati a questo settore; e che arrivano anche da lontano per provare il nostro caffè. Questo ci ripaga di tutte le fatiche».

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