Un bello tutto nuovo

Profonda è la bellezza, se vista con gli occhi dello spirito.
Il Cristo Velato, cappella di Sansevero di Napoli. Foto di David Sivyer - https://www.flickr.com/photos/argyle64/15225087681/in/album-72157647549969541/, CC BY-SA 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=49085925

Parlare di bellezza oggi può suonare fuori luogo, addirittura inopportuno per le tante esperienze di bruttezza, sofferenza, indifferenza che tutti facciamo. La bellezza è, infatti, un concetto di quelli talmente discussi che risulta anche difficile poterla definire in modo univoco. Eppure, la mia esperienza, che ciascuno ha del bello, è qualcosa a cui non è possibile rinunciare, perché ci arricchisce.

Molto spesso sono stata colta da profonda commozione dinanzi ad un paesaggio naturale; quasi sopraffatta dalla maestosità di una catena montuosa; ho provato un senso di vertigine euforica guardando in uno strapiombo; sono stata invasa dalla dolcezza di un campo di girasoli e la visione del mare mi dona serenità. Sentimenti che ho sperimentato anche di fronte alle opere d’arte, pur diverse per genere e forme. Ricordo un’esperienza fatta con il Cristo velato di Sammartino, presente nella Cappella Sansevero di Napoli: dinanzi a quella figura di dimensioni umane, scolpita in un marmo finemente lavorato, mi sono ritrovata non solo con un senso di stupore, ma anche commossa fino alle lacrime. Ero davanti ad un “cadavere umano” che promanava ancora vita. Una rara esperienza con un’opera d’arte che riaccende in me la filosofa dell’umano: la bellezza ha sempre accompagnato l’umanità, se ne trovano tracce di discussione già in Platone che accostava il bello al buono, essendo lo stesso termine greco indicativo di entrambi questi valori astratti che possiamo riconoscere e generare al di fuori di noi stessi.

La natura, come le opere d’arte, possono toccare profondamente i nostri sensi, in primis la vista, ma anche il tatto, l’udito e così via. Anche se questo non basta: il bello tocca qualcosa di più nascosto e immateriale che ci costituisce, va più in profondità, ai sentimenti. È la capacità del sentire interiore, come hanno sottolineato diversi pensatori del Novecento, che ci rende capaci di percepire ciò che sta sotto, o dietro, o dentro le forme esteriori di qualcosa/qualcuno e ci fa dire: che bello!

Nel tempo, specialmente i filosofi hanno individuato dei canoni e degli stili per riconoscere quel senso di armonia che si riteneva espressione della bellezza, perché una mancanza di armonia ci faceva fare esperienza del brutto. In tal modo si sono, però, sovrapposti i concetti del gusto estetico e del bello, rendendoli uno il presupposto dell’altro, con conseguenze anche importanti e non sempre positive. Il gusto, infatti, è il prodotto di attitudini personali e tendenze sociali che vengono inconsciamente o meno incamerate. Se, allora, in un determinato contesto si assume che il canone della “donna bella” corrisponda a determinate misure esteriori e non a qualità della persona, molte ragazze possono essere indotte a credere che sia necessario corrispondere a quel canone per essere riconosciute, apprezzate e stimate, magari facendo di tutto per raggiungerlo, a costo della salute o di rinnegare ciò che è più importante.

Anche l’arte è stata sempre soggetta a stili e canoni di una certa armonia delle forme. Ma la bellezza non è solo affare di forme estetiche, né di stili; è un valore cui umanamente tendiamo e che ci appaga perché siamo esseri spirituali. Se allora oggi viene messo in scena sempre più frequentemente il disorganico, il disarmonico, il brutto, è perché la vita ci restituisce bruttezza e disarmonia, e abbiamo trascurato la nostra interiorità.

L’arte si fa specchio delle fragilità dell’umano e con esso della società che costruisce e abita. Non più perfezione e armonia, ma voglia di comunicare una realtà piena di contraddizioni. Eppure, se il valore della bellezza viene da noi coltivato, potremo riconoscerlo nonostante l’esperienza di opere o realtà che non sono esteticamente belle, anzi, in virtù di quello potremo sostenere la desolazione e la crudezza che la vita a volte ci riserva. Come scriveva Etty Hillesum: «Ma cosa credete, che non veda il filo spinato, non veda i forni, non veda il dominio della morte, sì, ma vedo anche uno spicchio di cielo, e questo spicchio di cielo ce l’ho nel cuore, e in questo spicchio di cielo che ho nel cuore io vedo libertà e bellezza».

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons