Un attacco militare in Libia è da suicidio
Le ultime immagini dei lavoratori egiziani in Libia, cristiani copti, trucidati dai miliziani criminali dell’Isis induce alla reazione armata da parte dei governi. “Una guerra obbligata”, titola l’ultimo numero del settimanale Panorama riportando i risultati di un sondaggio secondo cui gli italiani sarebbero favorevoli al 50 per cento all’intervento armato. In contemporanea domenica 15 febbraio il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, e quello degli esteri, Paolo Gentiloni, hanno rilasciato interviste e dichiarazioni su un possibile intervento militare nel caos libico. Uscite ridimensionate dal premier Renzi, ma la questione resta aperta perché questo conflitto incontrollabile si sta consumando vicino alle nostre coste. Sulla situazione libica e sulla tipologia di intervento da attuare abbiamo intervistato Arturo Varvelli, Ph.D.Research Fellow, autore dell’ultima relazione dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale) per il parlamento italiano. L’Ispi, fondato nel 1934, è tra i più antichi e prestigiosi istituti italiani specializzati in attività di carattere internazionale.
A proposito della Libia, la relazione parla di «un Paese diviso in due. Da una parte le milizie islamiste, legate alla Fratellanza musulmana, controllano la maggior parte della Tripolitania e dell’ovest. Dall’altra, le forze del generale Haftar mantengono le loro posizioni in diverse zone dell’est e assediano da settimane la città di Bengasi. A contribuire all’instabilità libica si aggiunge la penetrazione di milizie jihadiste, che in alcune zone della Cirenaica si sono legate all’Isis».
Come giudicare gli annunci di immediati interventi militari in Libia? Si prevedono bombardamenti come nel 2011 per far crollare il regime di Gheddafi?
«In generale si deve dire che si è andati oltre misura e gran parte della nostra stampa ha fatto da cassa di risonanza a notizie falsificate. La presenza dell’Isis è stata ingigantita e non corrisponde alla realtà. Abbiamo letto di manifestazione dell’Isis a Tobruk, ma è un falso di tre anni fa, di interventi di terra da parte dell’Egitto, che non sono mai avvenuti. Anche le notizie sui tentativi di colpire l’Italia con barche cariche di esplosivi si sono rivelate una ipotesi di scuola, subito ridimensionata dai servizi segreti. Tutto questo ha contribuito a creare un clima pesante che alimenta titoli come quello di Panorama. Invece è necessario non cadere nella stessa trappola mediatica del 2011 quando sono passate notizie del tutto infondate»
A che tipo di notizie fa riferimento?
«Ad esempio l’annuncio dei diecimila morti tra le forze ribelli nei primi due giorni di combattimento. Un numero che non è stato raggiunto da entrambe le parti nemmeno durante tutta la guerra. Così come le notizie sulle fosse comuni che fortunatamente non si sono mai avute in Libia. Queste notizie lanciate da “Al Jazeera”, che non è certo un organo di informazione libero e indipendente, venivano acquisite e rilanciate dai maggiori quotidiani internazionali oltre che dal Corriere e da Repubblica, senza verifica adeguata. Stiamo facendo gli stessi errori di allora cadendo nella trappola dello pseudo Califfato
Perché pseudo?
«Perché quello proclamato dall’Isis non è affatto corrispondente alle norme e alla struttura prevista dall’Islam per il califfato. Tutto è come preordinato a suscitare una reazione di pancia che non permette l’analisi obiettiva degli interessi in gioco».
Quali sarebbero le conseguenze di questa reazione istintiva?
«Quella di suscitare un intervento simile a quello avvenuto in Somalia nei primi anni anni ‘90 e cioè senza mandato Onu ma soprattutto senza un necessario accordo preventivo tra le parti. Ciò provocherebbe una ritirata immediata delle nostre truppe che diventerebbero immediatamente l’obiettivo comune di tutte i gruppi islamisti coalizzati tra di loro in funzione anti occidentale. Un intervento così pensato alimenterebbe la propaganda a favore dello stato islamico».
Come spiega allora l’uscita dei due ministri italiani sulla necessità di guidare la coalizione che potrebbe agire in Libia?
«Mi sembra sia stata una forzatura partita da intenzioni nobili, cioè la necessità di riportare l’attenzione della comunità internazionale sulla grave instabilità della situazione libica, ma si è poi innescata una reazione a catena fuori misura perché l’interesse dell’Italia, come ha precisato Renzi e lo stesso Gentiloni chiamato a riferire in Parlamento, non è certo quello di un intervento immediato. Questa scelta sarebbe un azione suicida mentre si vuol rendere la Libia un luogo governabile e sicuro dal punto di vista politico militare. Sventolare la possibilità dell’intervento armato poteva servire come incentivo alle fazioni in lotta per trovare un accordo».
Quali effetti hanno generato, invece, queste dichiarazioni?
«L’effetto collaterale indesiderato è stato quello di aver dato il via libera all’Egitto che ha iniziato a colpire anche, si può dire, in maniera indiscriminata perché i nemici dell’Egitto non sono per forza anche i nostri nemici».
Quale è la strategia dell’Egitto?
«Quella di mettere in sicurezza un area dove si sono rifugiati parecchi militanti dei Fratelli musulmani egiziani e di proteggersi da un generico e potenziale rischio islamista. Noi dovremmo poter distinguere, tra le diverse parti in campo, quei soggetti che si rifanno all’Islam ma sono disponibili ad un processo di partecipazione politica. L’Egitto non fa, invece, alcuna distinzione e ha colpito in passato anche forze che erano al governo di Tripoli e che, come le forze di Misurata, sono tutt’altro che gruppi di islamisti radicali. Ci sono nell’area interessi della Turchia e del Qatar che invece appoggiano il governo di Tripoli. Il generale al Sisi si muove con obiettivi che non sono coincidenti con i nostri interessi»
Quali conseguenze avranno questi bombardamenti?
«Il governo egiziano tende ad appoggiare quello di Tobruk che, sentendosi perciò più forte, non si siederà mai al tavolo del negoziato e le soluzioni pacifiche saranno dilazionate nel tempo».