Un appassionato ballo in maschera

L'opera di Verdi, da sempre applaudita e apprezzata dal pubblico, è stata protagonista all'Accademia nazionale Santa Cecilia a Roma
Antonio Pappano

Quando fu dato a Roma, al teatro Apollo di Tor di Nona – che oggi non esiste più – nel 1859, il Ballo in maschera scritto da Verdi fu un enorme successo. Che dura ininterrotto. Perchè i tre atti di questo dramma di amore e morte, molto padano , passionale ed emotivo, ma anche ironico e brillante, sono scossi da un torrente melodioso sempre azzeccato, da una scrittura strumentale raffinata e da un impeto che soggioga. Si tratta infatti di uno dei grandi capolavori verdiani. Gli elementi del Bussetano ci sono tutti: l’amore ineluttabile di Riccardo per Amelia, moglie del fedele amico Renato, i congiurati, la maga Ulrica. Ossia, il mondo, con i suoi furori, le passioni, le oscurità. Ma anche le voluttà adolescenziali del paggio Oscar, più che un Cherubino mozartiano come qualcuno ha detto, il Verdi brillante scherzoso e sempre giovane che nella vita non è mai riuscito ad essere. Ma, si sa, nell’arte tutto è possibile, e qui Verdi sa scherzare, ironizzare – la scena dei congiurati che sorprendono Riccardo con Amelia di fronte quasi al marito – e, non è poco, perdonare.

Il perdono è infatti l’ultima parola, di Verdi e nostra, di fronte alla ineluttabile forza dell’amore – platonico, del resto – fra i due protagonisti, che sfocia nell’atto secondo in un notturno di estasi amorosa fra le più belle del teatro musicale, quando si ama e si fa fatica ad ammetterlo, ma poi si cede e allora sul tremolo degli archi, i violoncelli cantano la passione con il fare largo e caldo tipico di Verdi.

Come è tipico di lui il coro finale in cui Riccardo, ferito a morte, perdona tutti così che i violini – che nel preludio iniziale finiscono in una punta luminosissima – qui terminano allo stesso modo, come luce, anche se il sipario scende vorticoso sul consueto grido “Notte d’orror”.

Certo dare l’opera, quest’opera, in forma di concerto – come è stato fatto all’Accademia nazionale Santa Cecilia a Roma – è una sfida e un rischio perché i cantanti, privi di “scena”, si sono sforzati di dare credibilità ai personaggi – talora con accenti ”veristici” poco adatti – come fossero su un palcoscenico. L’orchestra diretta con foga era una canto sterminato degli strumenti, passando dalle raffinatezze dei legni al bollore dei violoncelli e al clangore degli ottoni: una visione di gran spettacolo teatrale, fortemente emotivo e coinvolgente  peril pubblico entusiasta, come riesce a fare bene Antonio Pappano.

Il senso di un “ballo” veleggiava nella direzione, prediligendo una atmosfera di danza alternata alla cupezza tenebrosa o alla nostalgia ardente di Riccardo e Renato. Le voci? Francesco Meli è un Riccardo slanciato, coinvolto, riesce bene soprattutto quando smorza il volume e canta “piano”; Amelia è Liudmila Monastyrska, volume ampio, sicurezza tecnica, ma pronuncia poco comprensibile; Dolora Zajick, mezzosoprano glorioso, ha ancora frecce al suo arco; il Renato di Dmitri Hvorostovsky  voce ampia, la forza però per attirare l’applauso; l’Oscar di Laura Giordano è voce fresca e bella. Ottimo il coro. Successo di pubblico irrefrenabile.

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