Un anno di profondi mutamenti

La sera dell’11 settembre 2001, il presidente del paese, il presidente Musharraf, faceva una drammatica apparizione alla tivù dichiarando “incondizionata collaborazione agli Stati Uniti”. La cooperazione con gli Usa mandava su tutte le furie quei movimenti islamici militanti che erano stati supportati dal governo per combattere i russi in Afghanistan negli anni ’80 e per contrastare le forze indiane in Kashmir. Tuttavia, schierarsi sul fronte dell’antiterrorismo dava la possibilità di rilanciare l’immagine di un governo moderato e progressista agli occhi della comunità internazionale. E così è stato: Musharraf, salito al potere con un colpo di stato e prima additato dall’occidente come dittatore, è diventato ora il principale alleato musulmano nella lotta al terrorismo. Dagli Stati Uniti e da molti altri paesi piovono milioni di dollari in aiuti e gran parte dei debiti sono stati riprogrammati. Ma tutto questo non bastava a ridare fiducia alla gente, che vedeva come Musharraf avesse sfruttato la situazione per rafforzare la propria posizione, accentrando tutti i poteri. Una scelta obbligata forse, per mantenere la stabilità nel paese, ma che di fatto ha dato un ruolo ufficiale all’esercito nella compagine governativa del paese. Mentre prometteva elezioni parlamentari in ottobre, Musharraf, con il discusso referendum dello scorso aprile, ha ottenuto di restare in carica per altri cinque anni. Egli ha operato anche sostanziali emendamenti alla Costituzione (ben 29), che, tra l’altro, impediscono il ritorno dei precedenti primi ministri Navaz Sharif e Benazir Bhutto. Tali modifiche costituzionali sono state condannate come antidemocratiche dagli opinionisti pakistani, ma sono passate quasi inosservate agli occhi dei paesi occidentali. In seguito al sanguinoso attacco del 13 dicembre al parlamento indiano, apparentemente perpetrato da ribelli islamici con quartier generale in Pakistan, l’India schierava centinaia di migliaia di soldati al confine con il Pakistan, sollevando lo spettro di un conflitto nucleare tra i due vicini. Sotto la pressione degli americani, che temevano che un conflitto indo- pakistano potesse compromettere la guerra in Afghanistan, Musharraf appariva in televisione il 12 gennaio per mettere al bando le cinque principali organizzazioni terroristiche. In pochi mesi numerosi attentati hanno scosso il paese. Anche chiese e istituzioni cristiane sono state attaccate. Questa escalation di attentati rischia di compromettere seriamente il promettente sviluppo economico. Vari paesi occidentali hanno chiesto ai rispettivi connazionali di lasciare il Pakistan. La minaccia di un conflitto nucleare con l’India per la disputa dei territori del Kashmir resta sempre presente e scoraggia i grandi investimenti. Così per Iqbal di Lahore, lavoratore a giornata, e per tanti come lui, è sempre più difficile sopravvivere: con una paga di 2 euro e mezzo (nei giorni che lavora) non riesce a far fronte ai prezzi crescenti: “Dicono che gli Stati Uniti hanno mandato tanti soldi, ma qui in casa nostra non sono arrivati”. “Ormai ci siamo abituati al ristagno del mercato – confida Sunil, imprenditore di Rawalpindi – ci sono pochi investimenti perché il futuro è incerto e mancano risorse finanziarie. La gente compra di meno perché non ha i soldi”. Il Pakistan della gente comune non appare spesso nei media occidentali, a caccia soprattutto di notizie allarmanti. Ma si comprende bene: è tutt’altro che un paese facile da raccontare nella sua grande e complessa varietà. Non è certo, comunque, una nazione in balia di gruppi estremistici. Il Pakistan è popolato di gente che lotta ogni giorno per sopravvivere. Tahir, commerciante musulmano di Rawalpindi, si lamenta perché ora le ambasciate occidentali gli rifiutano il visto d’ingresso solo per la sua folta barba, pur essendo già stato all’estero varie volte. Ci tiene ad aggiungere una ferma condanna ai terroristi dell’11 settembre e a quelli dei recenti attentati in Pakistan, ma anche agli americani delle “bombe intelligenti” che uccidono civili in Afghanistan. La situazione dei cristiani in Pakistan non è delle più facili. Per il pericolo di attentati le chiese e le istituzioni cristiane (soprattutto scuole e ospedali) sono presidiate da soldati e polizia. Non è facile abituarsi a vivere in una situazione così instabile. Il vescovo di Islamabad-Rawalpindi, mons. Anthony Lobo, ha dichiarato: “Dopo gli ultimi attentati vi è un crescente timore nella nostra comunità cristiana. Ma noi ripetiamo le parole di Gesù: perdona e ama il tuo nemico”. Forse sarà proprio una situazione così difficile a far riflettere la popolazione: il futuro di un paese si costruisce con il contributo di tutti, e la pace non è fatta solo dai proclami dei governanti, ma dall’impegno della gente comune ad abbattere barriere ideologiche, religiose e sociali per cominciare a costruire insieme il domani in spirito di aperta collaborazione. E i segnali non mancano. In questo anno si sono moltiplicate piccole e grandi iniziative di promozione della pace e del dialogo. Forse per la prima volta si sono visti leader cristiani e musulmani ritrovarsi insieme e stringersi la mano. Molti gruppi, tra cui i Focolari, si sono impegnati in questi mesi a creare occasioni di incontro e di dialogo tra le persone, arrivando persino nei campi profughi al confine con l’Afghanistan. Continue sono le richieste di nuovi incontri e approfondimenti. Questi sono piccoli segnali di fronte alle enormi sfide cui il Pakistan di oggi deve far fronte, ma indicano la possibilità di nuove strade da percorrere.

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