Un angolo di umanità

In quella conceria la giornata di lavoro si prospettava pesante, ma poi…
medico salute

Suona la sveglia alle 6.15. È una di quelle mattine in cui vorresti aver fatto un sogno, ma sei abbastanza sveglia e cosciente per capire che non lo è, e ricordi con chiarezza quello che ti aspetta nella lunga giornata che ti si prospetta davanti.

Le lamentele tra me e me mi riempiono la testa: «Inizieranno ad arrivare tutti assieme, lagnandosi dell’attesa diranno sciocchezze e volgarità fra loro, grembiuli e mani sporche di coloranti e diluenti…».

 

Devo recarmi in una delle concerie più grandi e d’eccellenza della Lombardia, una delle poche sopravvissute alla crisi; circa 150 dipendenti dai 20 ai 65 anni: è a loro che questa mattina dovrò prelevare il sangue. Mi faccio coraggio e parto, ricordandomi che nulla è per caso, e proprio oggi ci devo credere.

 

L’ingresso mi appare più quello di un lussuoso hotel che di una fabbrica. Mi viene aperta l’infermeria, dove sistemo il tutto per cominciare a lavorare. Il primo è così giovane che mi fa tenerezza. Al mio buon giorno la sua risposta secca è: «Sono qui a lavorare e non può essere un buon giorno». Io di rimando: «Pensa a quanti giovani disoccupati si alzeranno questa stessa mattina dicendosi che senza un lavoro non è un buon giorno!». Lui mi guarda negli occhi mentre gli stringo il laccio emostatico attorno al braccio magrissimo: «Certo – replica –, ma avere un lavoro non significa sempre aver risolto tutto». In silenzio penso: «Quante frasi fatte rovesciamo addosso ai giovani senza ascoltarli sino in fondo, frasi che servono a farci sentire saggi, adulti!». Luca è lì, in quella conceria, ma non si sente al posto giusto; è giovane, ma pare già vecchio.

«Abbiamo finito». Accenno un sorriso e faccio in modo che i miei gesti siano più amorevoli possibile. Mi dà la mano: «Grazie, signora, grazie tante».

 

Con occhi nuovi continuo il mio compito; ci sono famiglie intere, fratelli, cugini, padri e figli come Giovanni e Salvatore. Mi chiedono il permesso di entrare assieme. «Comincia mio figlio, signora». «Va bene, come preferite». Salvatore guarda il giovane con affetto, gli mette una mano sulla spalla: «Che braccia grosse ti sei fatto, Giovanni!». Il ragazzo gira la testa per non vedere l’ago che sta per bucare il suo braccio, mentre  il padre continua: «Dai, Giovanni, pensa a qualcosa di bello!… Sa, signora, quest’anno Giovanni si sposa…». Ride, e rivolto al figlio: «Poi dovrai lavorare ancora di più!». Ride anche Giovanni. E risponde: «È vero, però avrai anche tante soddisfazioni». Leggo negli occhi di Salvatore l’orgoglio di un padre che vede il proprio figlio diventare uomo, farsi una sua famiglia. Lui ne ha fatti di sacrifici, ma ne è valsa la pena: Giovanni è la sua soddisfazione più grande. «Dai, pa’, ti aspetto che poi facciamo colazione assieme». Escono contenti.

 

Nel mio ambulatorio è rimasto il profumo di sapone dei loro grembiuli freschi di stiro, penso a questa famiglia e avverto anche profumo di sacro. E poi Calogero, Stefano, Antimo, Carlo… e tanti altri; dietro ognuno di loro una storia di gioie, dolori, sacrificio, fatica e tanta dignità. Esco, le porte automatiche si aprono sull’immenso parcheggio. Ormai è chiaro. Sale dal mio cuore un grazie. Grazie perché m’è stato dato di passare accanto a questo angolo di umanità.

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