Un Agostino dalle molte vesti

Il punto della situazione sul modo di rappresentare il Santo d’Ippona di Paolucci e il rilancio pubblico di un Agostino di Caravaggio della soprintendente Vodret, nella presentazione a santa Maria del Popolo dell’Iconografia agostiniana
Presentazione Iconografia Agostiniana

Filosofo con toga e cartiglio o vescovo in abiti sacri e mitra o seduto ad uno scrittoio in veste di dottore. E ancora come falconiere, sulle mura della Città di Dio con le anime che volano attorno o in tonaca, con ampie maniche e cinghia di cuoio alla vita, per rendere visibile il legame con l’ordine che porta il suo nome e che non fondò mai. Stiamo parlando della millenaria storia dell’immagine di sant’Agostino. Santo dalle molte vesti e dai molti attributi iconografici, tanti quanti sono stati i messaggi da veicolare nei secoli.

 

Se n’è parlato ieri alla presentazione del primo dei quattro volumi dell’Iconografia Agostiniana. Dalle origini al XIV secolo, che andrà a completare l’Opera Omnia sul santo d’Ippona, frutto del quarantennale lavoro di co-edizione tra l’editrice  Città nuova e la Nuova biblioteca agostiniana.Tre i nomi eccellenti della storia dell’arte che hanno reso omaggio all’opera: Antonio Paolucci, direttore dei musei Vaticani di Roma; Rossella Vodret, soprintendente del polo museale di Roma e Marina Righetti, direttore del dipartimento di storia dell’arte alla Sapienza di Roma, a cui si è unito Pietro Bellini a rappresentare l’ordine degli agostiniani. Location – non certo casuale per il legame con l’ordine agostiniano –, la chiesa di santa Maria del Popolo, proprio come ha sottolineato la professoressa Marina Righetti (ascolta il file audio).

 

E se l’abito del primissimo Agostino è quello del filosofo, dell’intellettuale romano, con rotulo alla mano e libro aperto davanti a lui, nel processo evolutivo che nel tempo subisce l’iconografia questo «gesto del dialogo rimarrà sempre» ha detto Paolucci. Un esempio per tutti è il cappellone di san Nicola da Tolentino datato XIII secolo.

Giusto una manciata di anni dopo Agostino vestirà i panni di pastore del gregge, di episcopo, nel dittico di Boezio, mentre più lentamente prende forma l’inquadramento da un punto di vista dottrinale come difensore della fede. Non a caso sarà definito anche nel Medioevo «martello degli eretici». Ed è stupefacente «quante volte è rappresentato nei codici miniati del XII e XIII secolo – ha detto Paolucci – l’opera Augustinum contra Faustum». E non mancherà nemmeno di essere raffigurato nei cicli pittorici – il volume da cinque porta il repertorio ad undici –, come accade nel monastero dei Santi Quattro Coronati di Roma. Un dipinto murario «rimasto miracolosamente intatto, che conserva i dettami tecnici e artistici, perché è stato coperto dalla calce nel 1300 – conferma la Vodret  –, per disinfettare le pareti» dalla peste e rinvenuto solo nel 1996.

 

 

Non si tratta perciò di semplici cambi d’abito. La storia ha bisogno spesso di attestazioni, di gesti che testimonino un’appartenenza e le immagini, forse ancor più rispetto ad oggi, assolvevano a questo compito, proprio come accadde nel XIII secolo. Il concilio di Lione, infatti, aveva stabilito che potevano sopravvivere solo gli ordini fondati prima del 1215. Nacque così la richiesta di riformulare la vita del santo d’Ippona per venire incontro all’esigenza di tre ordini monastici, nonostante «al di là della regola comune – ha precisato Bellini –, avevano abiti, costituzioni e abitudini diverse». Agostino vestì così un saio nero pur non avendo mai espresso la volontà di fondare un ordine.

 

Stesso abito che portava frate Martino, che «un giorno di primavera di 501 anni fa – ha ricordato Paolucci – entra a Roma per la porta del Popolo». Il frate, noto a noi come Martin Lutero, proveniva dal monastero di Efurt, luogo che conservava un ciclo sulle vetrate databile tra il 1330 e il 1340. A quell’epoca l’iconografia di Agostino era già stata definita e «ci piace pensare – ha detto Paolucci –, quanto Lutero avrà amato quelle storie».

 

Un secolo più in là, nel 1440, Agostino cambierà anche colorito. I tratti della sua carnagione, infatti,  si faranno più ambrati per ricordare che è sì maestro, vescovo e dottore, ma anche di sangue magrebino. L’esempio maggiore sarà Botticelli nel convento d’Ognissanti a Firenze. Ma questo è un altro viaggio nell’iconografia di Agostino. Ancora da compiere, e chissà che nel prossimo volume non ci sia anche il sant’Agostino di Caravaggio, recente scoperta presso un antiquario inglese, e definito dalla Vodret un quadro importantissimo: «Vorrei capire perché Caravaggio – ha detto la soprintendente –, ha voluto mettere questi libri dietro la figura di sant’Agostino, confondendo le idee a studiosi di mezzo mondo». Un aiuto potrà venire ancora dallo studio delle immagini, e forse non è tanto impreciso il raffronto che si può fare con Panofsky, famoso studioso di iconografia e iconologia, che per spiegare con un paragone il metodo che lo storico dell’arte utilizza per parlare di Tiziano, racconta la leggenda che vede Agostino passeggiare su una spiaggia. Ancora lui, Agostino e … ancora in un’altra veste.

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