Uccialì, il grande ammiraglio passato dalla Croce alla Mezzaluna
Che la costa jonica, detta “dei Saraceni”, sia uno dei siti turistici più suggestivi della Calabria per valori paesaggistico-ambientali e per ricchezze storico-archeologiche (attestanti, queste, quasi duemila anni prima di Cristo, i contatti tra i popoli indigeni enotrio-japigi e il mondo minoico-miceneo), è risaputo.
Arcinota è anche la gemma di questa costa, posizionata nel tratto orientale dell’ampio golfo di Squillace a dieci chilometri da Isola di Capo Rizzuto e a venti da Crotone: l’antica fortezza di Le Castella, sorta in difesa dell’adiacente borgo dagli attacchi nemici sopra un isolotto collegato alla terraferma da un sottile istmo.
Le Castella: il toponimo ricalca il plurale neutro del latino castellum. Quanta storia è passata da questa briciola di terra, scelta ai nostri tempi come set ideale di diversi film in costume! Qui si stanziarono i greci fin dal IV secolo a. C., come testimoniano i blocchi di arenaria rinvenuti al di sotto della fortezza e nei fondali attorno: probabili resti di un porticciolo di epoca ellenistica; come pure, sulla vicina Punta Cannone, le cave che, oltre ai materiali per edificare lo stesso castello, dovettero fornire i rocchi delle colonne del celebre tempio di Hera Lacinia a Capo Colonna.
Ai greci subentrarono i romani, che dopo aver inseguito fin qui il condottiero cartaginese Annibale alla fine della seconda guerra punica, tra il 208 ed il 202 a.C.), fondarono su questa insenatura un nucleo abitato cinto da mura: forse quei Castra Hannibalis citati da Plinio, che in questi paraggi segnalava anche la presenza di un miniarcipelago ormai scomparso, l’ultimo resto del quale sarebbe appunto l’isolotto occupato dal castello.
Nei secoli IX-XI esso venne conquistato dagli arabi, creatori di un emirato nella vicina Squillace e aspiranti al controllo dell’intero golfo da questo punto strategico. Cessata in parte la minaccia araba, col tempo il primitivo villaggio divenne un borgo popoloso e attivo per commerci e vita sociale.
Dal secolo XIV fino al XVI la fortezza seguì le complesse vicende dinastiche del regno di Napoli, che videro avvicendarsi francesi e spagnoli. Di età angioina è infatti l’impianto originario, come attesta la torre cilindrica centrale. Passata agli aragonesi verso la fine del XV secolo, la rocca fu dal re Federico d’Aragona ceduta al conte Andrea Carafa, che tra il 1510 e il 1526 la munì di possenti bastioni quadrangolari speronati.
Durante il periodo aragonese l’abitato sulla terraferma comprendeva palazzotti, case più modeste, due chiese, una pubblica piazza, un quartiere riservato agli ebrei (fino alla loro espulsione nel 1510 per volere di Ferdinando il Cattolico), magazzini, botteghe artigiane e una seconda fortificazione rappresentata dal Castello Vecchio; sorgeva inoltre, nelle vicinanze, un ospedale.
Dal secolo XVI fino al XVIII le scorrerie ottomane e piratesche misero a ferro e fuoco il borgo, tra razzie, stragi e rapimenti. Per un periodo, gli abitanti della zona trovarono ricovero nella fortezza, dando vita ad un piccolo borgo interno alle mura. Irreversibile la decadenza dell’abitato a terra, culminata col suo abbandono alla fine del Settecento.
E proprio nel 1799 questo fu luogo di scontro tra napoletani e borbonici e punto di approdo delle truppe provenienti dalla Sicilia. Da quel momento il borgo, già comune feudale, successivamente aggregato a Crotone e poi divenuto frazione di Isola Capo Rizzuto, seguì le vicende politico-amministrative del risorto Regno di Napoli e, successivamente, dello Stato italiano.
Visitare questa rocca sospesa sull’acqua è fare un’immersione non solo nella storia, ma anche nel mito e nella leggenda. Contempli dall’alto degli spalti e della torre angioina le acque cristalline dell’Area marina protetta di Capo Rizzuto, la più estesa d’Italia, e la mente va al perduto arcipelago di cui avrebbe fatto parte l’isolotto di Ogigia, rifugio della ninfa Calypso secondo Omero; volgi lo sguardo sulla costa disseminata dei ruderi delle torri erette per avvistare gli invasori di turno, e l’immaginazione ti porta a rievocare cruenti scenari di battaglie navali e di assedi.
Come quando, nel 1536, il corsaro barbaresco e bey (governatore) di Algeri Khayr al-Dīn, noto col nome di Barbarossa, rapì un giovane del posto da destinare al mercato degli schiavi di Istanbul: Giovan Dionigi Galeni. Questi, dopo qualche anno di duro lavoro “al remo” di una galeotta ottomana, abbracciò la religione islamica, facendo poi rapida carriera con il nome turco di Uluc Alì, ovvero Alì il Rinnegato, italianizzato in Uccialì.
Uccialì è anche il titolo di un saggio storico di Mirella Mafrici pubblicato da Rubbettino, che attingendo a fonti ancora inedite o poco note, ricostruisce la figura di questo intrepido scorridore del Mediterraneo che, subentrato al corsaro Dragut, fu l’unico comandante ottomano a sopravvivere alla disfatta di Lepanto (1571) e a riportare in salvo a Costantinopoli una trentina di navi.
Premiato dal sultano Selim II col titolo di ammiraglio della flotta turca e l’appellativo di Kiliç Alì (Alì la Spada), Uccialì ricostruì in un anno le navi distrutte a Lepanto e nel 1572 tentò la rivincita, anche se con scarso successo. In compenso riconquistò alla Mezzaluna Tunisi, espugnata precedentemente dai cristiani. Citato da Cervantes nel Don Chisciotte, morì nel 1587 nel suo palazzo nei pressi di Istanbul, lasciando a schiavi e servi beni e proprietà. Di nessun fondamento è la notizia della sua riconversione al cristianesimo in punto di morte. È sepolto nella Moschea di Kiliç Alì Pascià, da lui stesso eretta poco distante dal quartiere di Galata.
Malgrado i trascorsi da rinnegato e avversario dei suoi antichi correligionari, dal 1961 un busto bronzeo di Uccialì – sguardo fiero, turbante, baffi a manubrio – fa mostra di sé a Le Castella sulla piazzetta antistante la rocca sul mare. Così si conclude il saggio della Mafrici su questo personaggio dalla vita dimezzata: «Asceso per il suo indubbio merito alle più alte cariche dello Stato, era vissuto in grande sintonia con tre sultani che ne avevano apprezzato le doti non comuni in un particolare momento storico antecedente e successivo alla battaglia di Lepanto. Incursioni e schiavitù, rinnegamenti e traffici commerciali, come pure conflitti e paci, accordi diplomatici e reti spionistiche, avevano caratterizzato la vita di Uccialì, un calabrese di “successo” nella Costantinopoli del Cinquecento, un grande ammiraglio ottomano la cui “fortuna” e generosità erano divenute “leggenda” per tanti meridionali del suo e del nostro tempo».