Tutto quello che so del grano

L’intenso racconto del proprio vissuto tra crisi e rinascite, del Teatro delle Ariette che si radica alla terra e alle sue leggi, diventa condivisione di un’idea del cibo come relazione umana
teatro

L’atmosfera è conviviale. Si respira aria di casa. Perché l’accoglienza, entrando, è quella di chi sembra conoscersi da tempo, di chi ha condiviso momenti di famiglia, magari attorno a un tavolo per consumare un pasto e intanto raccontarsi, tra un sorriso, una lacrima e un bicchiere di vino, storie personali.
Il formarsi di una piccola comunità è quello che succede, da sempre, negli spettacoli del Teatro delle Ariette, ovvero Paola BerselliStefano Pasquini Maurizio Ferraresi, i componenti della compagnia emiliana che da vent’anni ci deliziano con la loro pratica teatrale. Pratica che nasce dalla passione per la terra, da un recupero di antiche tradizioni legate alla natura, di cui oggi più che mai sentiamo il bisogno. E di coltivazione si tratta, da quando decisero di ritirarsi in un podere di campagna, a Castello di Serravalle, sui colli bolognesi, a lavorare i campi e accudire gli animali. Da qui l’idea, il bisogno, di coniugare cibo e teatro.

 

 

Il cibo come azione diventa così elemento fondante, esperienza da condividere. Nel 2000 nasce il loro primo spettacolo, Teatro da mangiare, dove gli spettatori, riuniti attorno al tavolo, assistevano alla preparazione di cibi via via consumati, mentre si ascolta, con aneddoti, canzoni, foto e ricordi, il racconto autobiografico di Paola e Stefano, coppia d’arte e anche nella vita.
Da allora, con la creazione di altri spettacoli, le Ariette hanno continuato a nutrire il corpo e lo spirito. Stanziali e nomadi allo stesso tempo, alternano da anni tournée internazionali e attività sul territorio. L’ultima loro fatica è Tutto quello che so del grano: visioni di teatro, pensieri di vita, giunta ora a compimento dopo una prima fase. Mentre s’impasta e s’infornano delle focacce da consumare poi attorno a un bicchiere di vino, del formaggio e delle uova, si condivide un’altra tappa quotidiana di un uomo e una donna che vivono insieme da più di trent’anni continuando a coltivare la terra e a fare teatro.
Il soggetto è una lettera scritta una sera a causa di un loro litigio, che lui redige a lei nelle pause tra un impasto e una lievitazione e l’altra. Parlando del grano che da venticinque anni seminano insieme, lui le consegna così una sorta di testamento, per dirle tutto quello che sa di esso, tutto quello che ha imparato o pensa di avere capito del grano, del tempo, della vita. Le scrive un monologo, perché è un’attrice, e perché lei possa leggere e dire le sue parole di fronte agli spettatori e lui possa ascoltarle dalla sua voce. Lo spettacolo è una sorta di riflessione collettiva che interroga anche noi su quello che sappiamo di noi stessi, dei nostri simili e della terra che abitiamo.

 

 

Il sapere che le Ariette ci raccontano è soprattutto intuitivo e sentimentale, appartiene al campo dell’esperienza materiale: quella dei ricordi, delle emozioni, dei sentimenti, della farina, dell’acqua, del pane e del vino. Dal racconto della passione per la musica di Tom Waits – colonna sonora all’inizio dello spettacolo con la canzone Chicago che parla di semi piantati che non cresceranno –, Pasquini passa a chiedere: «Chi, oggi, scrive ancora lettere?». E ancora: «Se vi obbligassi stasera a scriverne una, a quale persona cara la scrivereste?». Lui la scrive a Paola. Ed è quella che ascoltiamo alternandosi entrambi davanti o attorno al tavolo, col grano sparso per terra o raccolto dentro una vasca dove lei immerge i piedi, rievocando, col semplice sovrapporsi di una veste, ricordi d’infanzia, o dialogando ironicamente con lui seduto di fronte. E mentre il profumo della focaccia nel forno si diffonde, affiorano memorie contadine, luoghi della fanciullezza, storielle di famiglia, insegnamenti ricevuti, aneddoti di un tempo che è stato, ma ancora pregni di calore e della necessità di essere narrati. Entriamo così nell’intimità di un rapporto ricco di esperienze vissute insieme – complici di un sentimento dimenticato: quello del “per sempre” – del quale ascoltiamo parole di occasioni mancate; di sogni e fallimenti d’attrice e di coppia; di dubbi sul teatro, se sia la cosa più importante della vita; del valore della lentezza e dell’ascolto per recuperare la preziosità del tempo; del dolore per la morte della madre avvenuta mentre Paola si trovava distante a recitare e impossibilitata a interrompere lo spettacolo; del teatro abbandonato definitivamente perché difficile da fare e ritenuto inutile, poi però ripreso, senza risposte né certezze, perché si ha bisogno di esso. «Si fa teatro per vivere la vita più intensamente», dirà lui; per finire la lettera dichiarando a lei l’aver capito l’unica cosa che conta: «Che questa focaccia l’ho fatta per te. Che questo è tutto quello che so del grano». Un dono d’amore che vale più di molte parole scritte o recitate.

 

 

Fra autobiografia e parabola di valori universali, dove s’insinua, tra le righe, la storia di ieri e quella tecnologica e televisiva di oggi, dove affiorano temi ecologici ed esistenziali, le Ariette ci fanno sentire commensali attivi del loro “sapere” del grano coinvolgendoci, infine, nel mimare insieme a loro quei gesti delle mani che Pina Bausch creò in Kontakthof per danzare il ritmo della natura nel trascolorare delle quattro stagioni.
Un omaggio alla grande coreografa che, indirettamente, forse, ha ispirato il loro teatro. Quel teatro che affonda le radici nella vita reale. E di essa continua a nutrirsi.

 

A Parma, Teatro delle Briciole, dal 4 al 6 novembre.

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