Tutto o niente
Che a governare sia la Thatcher o Blair il risultato non cambia: le desolanti periferie delle grandi città (Londra in questo caso) sono comunque abitate da un’umanità dolente e disperata che si affanna a sbarcare il lunario o, come dice uno dei personaggi del film, “a tenere lontano la fame”. Il trittico di famiglie con cui Leigh compone il suo affresco costituiscono, da questo punto di vista, uno spaccato drammatico e apparentemente privo di ogni speranza di riscatto umano e sociale. Povertà, rabbia, rassegnazione, disperazione, rancore, alcolismo, depressione sono la materia con cui il regista di Segreti e Bugie plasma i suoi personaggi, che, come spesso accade nel suo cinema, sono intrisi di una profonda consistenza poetica e di una dolcezza di fondo che affascina e coinvolge. I luoghi sono quelli tipici delle periferie: case piccole e buie, karaoke bar, pub, cortili di terra e cemento, squallidi fast food. In questo scenario dickensiano l’improvvisa comparsa del dramma, la malattia di un figlio, svela agli occhi del padre, prototipo dell’uomo fallito e del perdente nato, che anche le uniche cose che una volta davano senso alle loro vite, l’amore e la stima reciproca, se n’erano andate via chissà da quando. Ma l’evento funziona anche da catalizzatore, innescando una reazione inaspettata che porterà moglie e marito a un chiarimento in una scena straziante di confessioni, rimpianti e voglia di ricominciare che si farà fatica a dimenticare. In questo inferno urbano, tra miserie di ogni tipo, la speranza torna così timidamente ad affacciarsi. Non si sa quanto potrà durare, ma rimane intatta la certezza che quel vuoto di solitudine è stato, almeno per ora, colmato. Regia di Mike Leigh; con Timothy Spall, Lesley Manville, Alison Garland, James Corden, Ruth Sheen.