Tutti in fuori gioco
C’è sempre più il rischio di passare per ingenui nell’affermare che i valori dello sport devono prevalere sugli interessi economici. Ancora di più durante questa interminabile stagione segnata da crack finanziari agro-alimentari nonché sportivi, da spregiudicati conflitti di interessi fra mondo della finanza e dirigenza sportiva, da bilanci dissestati e gonfiati. La nuova (?) malattia ha un nome: doping amministrativo, un cocktail letale in cui sono miscelate la manipolazione di alcune voci di bilancio ed i mancati pagamenti dei debiti tributari. Per la prima si presuppone che le società abbiano ceduto i propri calciatori a prezzi gonfiati per migliorare il risultato netto dell’esercizio. Con questo escamotage i presidenti hanno potuto stemperare il rosso vivo dei conti del club e contano di sborsare meno quattrini di fronte all’imposizione, del codice civile, si badi, non del fair-play, di ricapitalizzare la società. Un’acrobazia finanziaria che per anni ha permesso di salvaguardare le società in fallimento, ma che, tuttavia, presuppone il reato di falso in bilancio. Oh, scusate, non è più un reato: lo ha deciso il presidente del Milan. Se volete un’idea dell’entità di queste cosiddette plusvalenze, basta un’occhiata ai debiti della serie A, a giugno 2003: 1.318 milioni, ridotti a 413 milioni con uno spregiudicato decreto salva-calcio, spalma-debiti in 10 anni, salva-faccia in 5 minuti. E chi non aveva debiti, come il Chievo? Si è dovuto quasi giustificare agli occhi sospettosi degli allegri compagni di viaggio. Quanto ai debiti tributari, si tratta semplicemente di tasse non pagate. Lo scudetto dei debiti 2003 spetta alla Lazio (118,8 milioni), incalzata dalla Roma (68,3 saliti a 102,9 già a novembre), da Juve, Milan ed Inter (21-23). Chi dubita di queste cifre sappia che la coincidenza dell’arrivo della guardia di finanza e dei capitali russi sul nostro calcio ha una ragione comune: la mancanza di soldi. I debiti si sa, chiamano giudici e compratori. Stranieri i secondi, e stranieri, in certo modo, anche i primi in un mondo che si è sempre giudicato ed assolto da sé. In questi anni i club pensavano di saziare la loro fame di prestigio con i soldi dei diritti televisivi. Dieci anni fa campavano benino riscuotendo 45 miliardi (di lire) dalla pay-tv. E solo uno o due anni prima, quando le parabole non c’erano nemmeno, bastavano loro i 10-12 miliardi di mamma Rai. Domanda: come si può arrivare allo sfacelo di oggi incassando venti volte tanto? Il tracollo del circo del pallone è tutto qui, in questo decennio che ha rivoluzionato il calcio, che lo ha portato in tutte le case nella sua forma più appetibile (la partita di serie A in diretta), che ha fatto salire alle stelle la popolarità dei giocatori. Ma chi si è messo a fare due conti ha scoperto che il prezzo di questa indiscutibile popolarizzazione l’hanno dovuto pagare proprio loro, i club: l’oceano di quattrini dei diritti televisivi non è finito nelle loro tasche, ma in quelle dei giocatori e dei procuratori che li gestiscono. Soldi improduttivi, a meno di considerare un indotto le discoteche frequentate dai divi della pedata. Così, dopo i mediani di spinta, i cursori di fascia, i centravanti di sfondamento, ecco alla ribalta i nuovi protagonisti del calcio: i politici, le banche, le cordate, i capitalisti. Come Murdoch, un personaggio che i valori dello sport li misura in euro: in questi giorni, per un pugno di fagioli, ha completato l’arruolamento fra le fila della sua (l’unica) pay-tv degli ultimi club ammutinati che si erano illusi di fare da soli. Il monopolio dei diritti del futbol apre scenari, se possibile, ancora più oscuri all’orizzonte. Un futuro sensato prevederebbe il ritorno alla forma di contrattazione collettiva tramite la Lega Calcio. Ma chi se ne intende lancia un allarme ben più serio: o la media degli stipendi si dimezza in due anni o stavolta si chiude tutto. È triste parlare di cifre in rosso quando ci piacerebbe tanto parlare del valore educativo dello sport come ci invita a fare, per il 2004, l’Unione europea. Ma lo impone la decenza. A proposito di Europa: a preoccupare le società sportive non sembra tanto essere la guardia di finanza, ma la cosiddetta licenza Uefa. Essa prevede che, per partecipare alle coppe europee, ed averne il ritorno economico, nella prossima stagione, le società dovranno rispettare, entro il 31 maggio, criteri ferrei: niente debiti scaduti con i propri dipendenti, inclusi gli oneri sociali e previdenziali, niente debiti di mercato con altri club, anche stranieri, un bilancio certificato. Una sfida, altro che quella per lo scudetto. Alla luce di queste poco consolanti prospettive è chiaro che indicare ricette infallibili per arrivare, e restare, nel mondo dello sport professionistico è problematico. Una chance in più potrebbero averla, stavolta, le piccole città: lo testimoniano il Chievo o l’Albino Leffe nel calcio, o l’Itas nella pallavolo. Il senso cittadino di appartenenza sembra efficace nel controllare i destini di un club sportivo: al di là di una solida base economica, traspare il valore di una struttura societaria minuziosamente organizzata, di un patrimonio acclarato di professionalità, di una volontà di condivisione di attese e progetti concreti, di un recupero dei significati aggreganti della filosofia sportiva. Senza che i risultati agonistici diventino irrinunciabile obiettivo immediato. E chissà che qualcuno non ascolti la ricetta di Arrigo Sacchi, che vive a Parma il pesante dramma societario: Non credo giusto il mecenatismo: è una forma di slealtà sportiva. Non è giusto che tutti i giocatori debbano confluire in poche società: non c’è crescita, non c’è equilibrio. Il calcio deve recuperare i valori: umanità, educazione, professionalità. E gli stipendi non devono superare il 50 per cento dei bilanci.