Tutti figli allo stesso modo

Una mattinata trascorsa in una delle case famiglia della Comunità Papa Giovanni XXIII, fondata da don Oreste Benzi.
Comunità

La porta si apre, ma non vedo nessuno. Finché non abbasso gli occhi: «Tu sei la giornalista, vero?». Due occhi scuri mi guardano dall’altezza di circa un metro. «Aspetta, chiamo la mamma». Benvenuti in una delle 253 case famiglia della Comunità Papa Giovanni XXIII, l’avventura iniziata nel 1973 a Coriano (Rimini) da don Oreste Benzi. Presente in 25 Paesi del mondo, la Comunità conta oltre 1850 membri effettivi impegnati nelle attività più svariate: strutture di accoglienza, cooperative, volontari in servizio civile e corpi di pace.

 

Siamo in provincia di Treviso, nella grande famiglia di Tarcisio e Susanna Rebellato. Vent’anni fa, dopo tre anni di matrimonio, hanno scelto di entrare nella Comunità, e poi di «vivere il cristianesimo in pienezza» aprendo la loro casa a chi non ha famiglia. All’epoca avevano solo una figlia. Adesso sono in undici: quattro figli naturali, due gemelli disabili, e due fratellini in affidamento. A questi si aggiungono una volontaria in servizio civile e una sorella di comunità con la ragazzina disabile che ha adottato. «Negli ultimi cinque anni sono passate per la nostra casa circa una ventina di persone – raccontano Tarcisio e Susanna – ma non sapremmo dire quante ne abbiamo accolte in totale. Non solo bambini in affidamento o disabili, ma anche ragazze madri e ragazze di strada. La cosa a cui teniamo di più è che ciascuno di loro si senta scelto, non “parcheggiato” qui».

 

Al di là del via vai di gente, in casa Rebellato si vive tra alti e bassi come in tutte le famiglie. Anche nei rapporti tra figli naturali e non: «Siamo esseri umani, quindi è chiaro che il legame di sangue ha il suo peso. Ma, come diciamo sempre nella Comunità, nemmeno i figli naturali sono davvero tuoi se non li “rigeneri nell’amore”, e questo fa sì che per noi e tra loro siano tutti fratelli allo stesso modo». Fratelli che a volte trovano nella casa famiglia solo un’accoglienza temporanea: «È sempre difficile lasciar andare qualcuno – ammette Susanna – ma noi guardiamo prima di tutto al bene del bambino. Quando è possibile manteniamo i contatti, in modo che il distacco sia graduale. Ma se è meglio non farlo, siamo pronti ad accettare anche questo».

 

A sentir loro, le difficoltà maggiori sono forse quelle di ordine burocratico: «Per la casa famiglia – spiega Tarcisio – deve essere rilasciata un’autorizzazione, a seconda delle leggi regionali in materia di istituti di accoglienza. Ci sono quindi una serie di requisiti a cui bisogna adeguarsi, e a volte il rischio è quello di snaturare la nostra realtà: siamo una famiglia, non un istituto, per il quale sono previsti operatori regolarmente assunti e particolari norme di sicurezza. Per fortuna alcune Regioni, tra cui il Veneto, hanno previsto delle deroghe specifiche. Perché è la famiglia, se possibile, il luogo dove accogliere, non l’istituto». I benefici, soprattutto per malati e disabili, sono notevoli: «Anche patologie gravi, come l’autismo – spiega Susanna – rientrano in maniera inaspettata se “curate” in casa. La famiglia può essere una vera e propria terapia. Anche bambini a cui erano stati dati pochi anni di vita sono diventati adulti».

 

Il capitolo dell’economia familiare, però, non è tutto rose e fiori: Tarcisio e Susanna hanno lasciato il lavoro per occuparsi della casa e dei suoi ospiti. Fanno affidamento sulla cassa comune della Comunità, dalla quale non vengono retribuiti. «È anche questa una scelta di vita, di sobrietà» spiega Tarcisio, che si occupa della contabilità in famiglia. «Ogni casa prende dalla cassa ciò che è necessario, ma non è sempre facile far quadrare i conti. Chi viene ospitato, se può, paga una retta, e anche i servizi sociali a volte aiutano». «Ma la cosa più bella – afferma Susanna – è vedere la solidarietà delle famiglie del paese: c’è chi ci regala la spesa, chi fa un’offerta. Anche il pulmino che usiamo per spostarci è stata pagato per metà dalla Regione, e la casa dove abitiamo ora ci è stata concessa gratuitamente». Proprio questa è la nota dolente: i cinque anni di comodato sono scaduti lo scorso giugno, e la proprietaria dello stabile aveva espresso già sei mesi prima l’intenzione di non rinnovare l’accordo. «È stato davvero un brutto colpo – ammette Susanna – perché per noi trovare una soluzione adatta è davvero difficile. Anche in questo abbiamo visto molta solidarietà: ci hanno proposto diverse ex canoniche, ma purtroppo, pur essendo sufficientemente grandi, non rispondono ai requisiti di legge che dobbiamo rispettare, soprattutto per i due ragazzi disabili». Per ora è stato loro concesso di rimanere nella casa attuale ancora per qualche mese, ma entro la prossima estate dovranno trovare un’altra sistemazione. «Non sappiamo ancora dove, ma siamo fiduciosi». Basta fare un giro per la casa per rendersi conto di come siano stati sinora fortunati: gli spazi sono molto ampi, c’è un ascensore per i ragazzi disabili, un’enorme stanza per feste e giochi nel seminterrato, un piccolo laboratorio dove i gemelli fanno falegnameria e piccoli lavoretti, una stanza da musica – Susanna studiava al conservatorio – e una cappellina, che Susanna definisce “il cuore della casa”.

 

Il luogo d’incontro per eccellenza, però, sembra essere la grande cucina. All’ora di pranzo Tarcisio mette sui fornelli un grande pentolone. Tutti i figli, compresi i due in sedia a rotelle, arrivano a dare una mano. Difficile dire quali siano quelli naturali: tutti quanti si rivolgono a Tarcisio e Susanna con “mamma” e “papà”. «Noi non li forziamo in alcun modo – spiega lei – ma i bambini hanno il diritto di chiamare qualcuno con questo nome». Vedendo tutti seduti attorno al tavolo, viene spontaneo pensare a come la “famiglia”, che molti – specie nell’agone politico – affermano di voler difendere, sia qualcosa di estremamente vario e non sempre definibile in maniera univoca. «Per noi è una piccola società, dove ognuno trova l’ambiente che gli permette di sviluppare il meglio di sé. Una capanna dove, tra tutti gli stimoli che arrivano dall’esterno, trovi delle persone che ti aiutano a filtrarli, un punto fisso che ti aiuti a metterti in relazione col resto del mondo» spiegano, mentre aiutano a mangiare chi non può farlo da solo. Finito il pranzo, ognuno dà una mano a sparecchiare. Nel giro di poco tempo, tutto è di nuovo in ordine, e ciascuno torna ai propri impegni. Saluto e ringrazio della mattinata passata assieme. «Torna a trovarci quando vuoi – mi dicono – tanto, come hai visto, qui una persona in più non è un problema…»

 

 

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