Tutta colpa dei social

Eliminare un contenuto da un motore di ricerca è quasi impossibile. Un minorenne deve chiamare i genitori e, se non basta, il Garante della Privacy. Il web incentiva aggressività e manipolazione dell’informazione, influenzando negativamente il nostro benessere. Si può cambiare qualcosa?
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Tutta colpa dei social

 

Dopo la sentenza del Tribunale civile di Napoli sulla vicenda di Tiziana Cantone, la giovane che si è suicidata a causa di un video condiviso sul web si è rianimato il dibattito sulle colpe del web e sul diritto all’oblio, il diritto, cioè, di far sparire delle cose che ci riguardano dalla rete (che sarebbe, se non interpreto male l’opinione più diffusa tra gli esperti del settore, perlopiù un’illusione, una roba da giuristi, teoricamente molto bella e giusta, ma concretamente e, soprattutto tecnicamente, poco realizzabile).

 

Condividere un contenuto, un contenuto qualsiasi (un video, una foto, un testo) sul web attraverso un’applicazione social è molto semplice: bastano tre o quattro clic, forse meno. I tasti per la condivisione sono di solito progettati e disegnati in modo da essere ben visibili, vicino alla funzione per scrivere, in evidenza insieme al tasto per mettere i “mi piace” e le faccine, su Facebook, oppure, nel caso di WhatsApp (solo per menzionare due esempi tra i più popolari), non lontano dal microfonino per registrare e condividere i commenti vocali. Può darsi che io non abbia le ultime versioni di queste due applicazioni, ma non credo faccia molta differenza.

 

Invece per eliminare un contenuto da un motore di ricerca la vicenda si complica. Facciamo l’esempio di Google: per eliminare un contenuto bisogna compilare un modulo, indicando i propri dati personali e l’Url (cioè l’indirizzo dove si trovano i contenuti incriminati) da eliminare. Poi bisogna allegare la carta d’identità (immagino con una scansione, non ho ancora provato di persona). La carta d’identità, se non è cambiato niente da quando mi sono iscritto a Facebook, non viene chiesta per pubblicare contenuti, ma viene chiesta, da Google, per eliminarli.

 

Un minorenne può quindi iscriversi a un social network in dieci secondi, condividere con gli amici delle foto di cui potrebbe pentirsi dopo due minuti, però per toglierle deve chiamare i genitori che, si spera, avranno esperienza di come si compila un modulo. E poi bisogna sperare che Google voglia eliminare il contenuto. Di solito lo fa se si tratta di cose private e che non riguardano personaggi pubblici, perlomeno così ho letto. Potrebbe però succedere, è solo un’ipotesi, che Google, per qualche ragione, magari per una valutazione errata, decida di non eliminare il contenuto. Allora l’unica soluzione sarebbe fare appello al Garante della privacy. E per farlo non basta nemmeno più l’esperienza dei genitori, tocca chiamare un avvocato, spendere dei soldi e far causa a un gigante dell’economia globale; una faccenda che, credo, farebbe venire qualche preoccupazione pure a Erin Brokovich.

 

La questione però non riguarda solo Google, perché Google indicizza contenuti che non sono sotto il suo controllo e se anche decidesse di eliminare i risultati che provengono da un sito, non è detto che gli stessi risultati non risaltino fuori attraverso qualche altro sito e non vengano nuovamente indicizzati. In un caso come quello di Tiziana Cantone (o della giovane di Ostuni che ha denunciato la presenza in rete di un filmato che la riprendeva nell’intimità o di altri casi del genere) il web ha dunque qualche responsabilità? Forse il web come concetto astratto no, ma il web così com’è oggi, con un’architettura che incentiva atteggiamenti come l’aggressività e la manipolazione dell’informazione, be’, forse qualche responsabilità ce l’ha.

 

Un professore americano che si chiama Jeremy Baileson, alcuni anni fa, ha dimostrato che, modificando la statura di un avatar (Baileson è uno che lavora con la realtà virtuale e altre cose che faccio fatica anche a pronunciare), una persona, dentro a un ambiente virtuale, modifica la percezione di sé: si sente meglio, ha una migliore considerazione di quello che è.

 

Due studiosi italiani, Franco Sabatini e Francesco Sarracino, hanno notato come l’uso dei social network sia correlato a una minor fiducia sociale, e hanno osservato che i discorsi carichi di odio che si leggono un po’ ovunque nei commenti on line influenzano negativamente il nostro benessere.

 

La maniera in cui sono congegnati e disegnati gli ambienti virtuali, il web e le pagine dei social network può modificare i nostri comportamenti? Può darsi. Ma non è detto che il web e i social network debbano rimanere così come sono ora per l’eternità. Evgeny Morozov si è domandato: “È proprio vero che Google non potrebbe funzionare diversamente?”. Ed è giusto che i minorenni possano accedere ai social network in maniera così semplice? Ed è necessario obbligare la gente a mandare un modulo per far scomparire dei risultati da un motore di ricerca? Ed è proprio impossibile trasformare i social network in dei luoghi, diciamo così, un po’ più adatti a un confronto civile tra le persone?

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