Turchia e Siria: dopo il terremoto

In questi giorni i media raccontano molti episodi profondamente toccanti sulle persone e su quello che i soccorritori riescono (o non riescono) a fare nelle aree colpite dal terremoto. Senza nulla togliere a molti racconti profondamente umani, un aspetto forse un po’ trascurato dall’informazione è la situazione etnica e politica sulla quale il terremoto si è abbattuto
Turchia e Siria
(AP Photo/Bernat Armangue)

A 5 giorni dal terribile terremoto che ha colpito violentemente la Turchia meridionale e il nordovest della Siria con due scosse di magnitudo 7.8 e 7.5 Richter (e centinaia di altre di intensità inferiore), i dati rilevati al 10 febbraio parlano, per ora, di circa 20 mila vittime in Turchia, e circa 3.700 in Siria, comprese le terre curdo-siriane occupate dai militari turchi: il 40% delle vittime sarebbe nelle aree controllate dal regime e il 60% nella piccola zona di nordovest occupata da ribelli jihadisti e filoturchi. Le persone ferite avrebbero complessivamente (Turchia e Siria) raggiunto il numero di 75-80 mila.

Per la regione di Idlib preoccupa soprattutto la situazione dell’alto numero di sfollati per la guerra, stimati in oltre 4 milioni, che vivevano in condizioni già molto precarie prima del terremoto. Sono difficilmente raggiungibili dai soccorsi Onu sia per la condizione delle strade che per i blocchi dei miliziani o dell’esercito siriano. Nella parte terremotata della Siria controllata dal regime di Assad, invece, il fatto forse più inquietante è la prospettiva che almeno 5 milioni di persone si troverebbero senza un tetto, in un territorio dove la guerra aveva già distrutto moltissimo e tanti abitanti si erano sistemati in qualche modo: questo “qualche modo” non ha retto al terremoto.

Per quanto riguarda la Siria del regime di Assad uno dei maggiori ostacoli all’invio di aiuti umanitari (per non parlare dell’ancora più complicato invio di soccorsi) sono le sanzioni che da decenni gravano sul Paese o per meglio dire sulla popolazione. Alla fine, gli Usa, anche se non richiesti, hanno allentato la morsa delle sanzioni, tramite una sospensione temporanea (fino al 31 luglio) del blocco riguardante “transazioni economiche verso aree governative per l’esclusivo uso umanitario relativo all’emergenza post-terremoto”. Insomma il minimo sforzo per un ancor più esiguo risultato. Nei confronti dell’Ue, se non altro, il regime si è invece un po’ “sbottonato”: rendendosi conto di non essere in grado di far fronte alla situazione, il direttore della Mezzaluna Rossa siriana ha chiesto all’Ue di fornire soccorso (uomini e mezzi della protezione civile) e inviare aiuti (farmaci, tende, generatori, ecc.) alle zone devastate. Anzi, sapendo che l’Ue l’avrebbe chiesto, ha dichiarato che avrebbero inviato parte degli aiuti anche nelle zone controllate dagli oppositori.

Un dato importante per comprendere il contesto in cui si è abbattuto il terremoto è quello di capire chi siano le persone coinvolte: le aree turche e quelle del nordest siriano colpite dal terremoto non sono abitate solo da turchi e/o da siriani tout-court, ma in gran numero da profughi siriani e curdi fuggiti in Turchia e da moltissimi curdi che vivono da sempre in queste regioni. Non è certo un caso che tra le città più duramente provate vi siano, per esempio, Diyarbakir, Kahramanmaraş e Gaziantep, che sono i nomi turchi imposti fin dall’epoca ottomana a luoghi che i curdi del posto chiamano rispettivamente: Amed, Mereş e Dîlok. E com’è noto i curdi non sono mai stati troppo simpatici al regime turco del presidente Erdogan. Una prospettiva “alternativa” sulla situazione dei curdi nei territori turchi e siriani colpiti dal sisma la si può rilevare dal sito dell’Ufficio informazione del Kurdistan in Italia (uikionlus.org). L’Uiki chiede all’opinione pubblica, al governo italiano, alla comunità internazionale, al Parlamento europeo e al Consiglio d’Europa di “supportare i popoli di Kurdistan, Siria e Turchia, di adoperarsi perché venga garantito ai soccorritori e volontari l’accesso alle aree colpite, perché non venga impedito ai giornalisti di recarsi in loco e perché venga permesso agli aiuti umanitari di raggiungere le aree colpite in Turchia e Siria”.

Una dichiarazione significativa, per fare un altro esempio, è quella del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), che ha deciso di sospendere temporaneamente tutte le sue “operazioni” in Turchia: «Stop alle operazioni nelle città della Turchia. Abbiamo deciso di non condurre alcuna operazione finché lo Stato turco non ci attaccherà», ha dichiarato un funzionario del Pkk, secondo quanto riferito dall’agenzia di stampa Firat.

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