Turchia e Paesi arabi: nuovi scenari politici in Medio Oriente
Nei giorni immediatamente precedenti il 2 maggio scorso, che ha segnato la fine del mese di Ramadan in tutto il mondo islamico, è accaduto un fatto emblematico, anche se certamente molto contingente e prosaico: il presidente turco Erdogan si è recato a Jeddah, in Arabia Saudita. Un viaggio inimmaginabile fino a pochi mesi fa, a causa del profondo dissidio fra i due Paesi.
Dissidio sorto nel 2018 in seguito all’efferato assassinio ad Istanbul di Jamal Khashoggi, fuoriuscito saudita e giornalista molto seguito del Washington Post. L’omicidio e l’occultamento del cadavere di Khashoggi sarebbero stati commessi da agenti dei servizi segreti sauditi per un ordine ricevuto dall’alto. Forse l’ordine prevedeva solo l’arresto e il trasferimento forzato in Arabia Saudita, ma qualcosa sarebbe andato storto nell’interrogatorio, e Khashoggi morì.
Sta di fatto che i sauditi fin dal 2018 hanno considerato la consegna delle carte e il trasferimento del procedimento come un fatto imprescindibile per il riavvio delle relazioni bruscamente interrotte fra i due Paesi. Tanto più che secondo la magistratura turca ci sono 26 sospettati, e tra loro vari personaggi dei servizi segreti sauditi vicini all’erede e factotum della monorchia saudita, Mohammed bin Salman (MbS). In più c’è anche il fatto che l’intelligence turca avrebbe registrato, tramite cimici installate da tempo, le conversazioni avvenute nel consolato saudita di Istanbul, prima, durante e forse anche subito dopo l’omicidio Khashoggi.
Questi gli antefatti. Ma la nuova situazione che si sta evolvendo in Medio Oriente (dopo la sconfitta elettorale di Trump, l’insediamento di Biden e soprattutto con la guerra russa in Ucraina), ha indotto il presidente turco Erdogan a fare una mossa non prevista: consegnare le carte e le competenze del processo Khashoggi a MbS, recandosi appunto a Jeddah, dove i due leader si sono incontrati. Alla faccia della temeraria accusa formulata dall’amministrazione Biden nei confronti del principe ereditario saudita: quella di essere il mandante dell’omicidio Khashoggi.
Riallacciare i legami con l’Arabia Saudita è diventata infatti una priorità nella politica regionale turca, se non altro per dare un po’ di ossigeno alla propria economia in affanno. E l’inedito doppio incontro di Erdogan, a novembre 2021 e febbraio 2022, con l’erede al trono di Abu Dhabi, Mohamed bin Zayed, sembrerebbe indicare che il processo di riavvicinamento comprende anche un alleato tradizionale dei sauditi, in altrettanto pessimi rapporti con la Turchia: gli Emirati Arabi Uniti (Eau).
L’attuale situazione, che l’avvento di Biden e la guerra russa hanno catalizzato, a quanto pare sta rapidamente avviando una significativa inversione di tendenza rispetto alla pluridecennale partnership tra Usa, Arabia saudita e Eau. Pur formalmente equidistanti tra Usa e Russia, molti regimi autocratici mediorientali non nascondono più le loro simpatie verso la Russia putiniana. Dubai, in aggiunta, sta diventando il rifugio preferito degli oligarchi russi in fuga dalle sanzioni occidentali.
Pur con vari e non trascurabili distinguo, Arabia saudita ed Emirati sono vicini alla Russia anche per una viscerale diffidenza verso l’attivismo delle società civili occidentali, la difesa dei principi democratici e un certo modo di esprimere sostegno ai diritti umani. Al club si starebbe quindi avvicinando anche la Turchia? Forse, ma senza dimenticare l’amicizia-opposizione tra Erdogan e Putin, e le posizioni turche ben differenti in Libia o nei confronti dell’Egitto: Erdogan è da sempre decisamente più incline alla fratellanza musulmana e vicino al Qatar. Però qualcosa si sta indubbiamente muovendo, tanto che perfino sauditi ed emiratini, per esempio, starebbero cercando un modo per riallacciare i rapporti anche con l’Iran, nonostante il conflitto yemenita, che è appunto entrato da poco in una fase di stand-by. A marzo scorso, gli Emirati hanno perfino accolto in visita il filorusso presidente siriano Assad, da tempo bandito dal consorzio arabo dei Paesi che contano.
Insomma, sta forse cambiando qualcosa di importante nelle politiche mediorientali. Il timore è che si vada verso una declinazione regionale di uno schieramento bipolare dai contorni inquietanti e poco promettenti nei confronti della pace. Una riedizione dei blocchi contrapposti della guerra fredda Usa-Urss?
Questa nuova tendenza porta con sé anche un certo ripensamento riguardo alla globalizzazione. O almeno verso quella globalizzazione sferica e uniformante, come la indica papa Francesco, che tutto appiattisce. Ma la globalizzazione poliedrica dalle molte facce, ognuna rispettata nel suo valore e rispettosa delle altre, che il Papa propone, sembra ancora più lontana di prima.
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