Turandot cinese

L'opera di Puccini eseguita dalla Cina National Opera House è uno spettacolo sgargiante per costumi, scene e recitazione. Squillante la direzione di Yu Fen
China Opera house

Puccini non riuscì a finirla, nel 1924, causa la malattia mortale. Così l’opera oggi si esegue con la conclusione scritta, sui suoi appunti, da Franco Alfano. Ma Toscanini, che la diresse per primo, non la volle utilizzare. A ragione, perché l’opera con un finale “aperto” segna sia il fatto che l’autore non seppe come terminarla (non solo a causa della scomparsa), lasciando così allo spettatore d’immaginarsi la fine – Calaf e Turandot si ameranno, staranno insieme? – e sia anche la fine di un’epoca. Con Turandot si chiude la storia dell’opera lirica, come unità di canto melodico e strumenti. Daquel momento il Novecento si esprimerà con altre vie.

Turandot certo è donna glaciale ma piena di passione, vuol dominare  il dramma – come tutte le eroine pucciniane – ma questa volta ne è dominata. E si smarrisce. Da femme fatale a creatura fragile, una volta svestita della sua crudele imperturbabilità. Puccini ha davvero capito il nostro tempo, in anticipo.

L’Opera Nazionale di Pechino arrivata con 240 persone ad aprire il decennale della Sinfonica di Roma, ha allestito uno spettacolo sgargiante per costumi, scene, recitazione misurata, direzione sullo squillante (fin troppo) dell’esperto Yu Feng, e voci belle, con buona dizione italiana: la tenera Liù di Yao Hong, l’eroico Calaf di Li Shuang e la forte Turandot di Wang Wei. Voci belle, fresche, curate, recitano e cantano con passione equilibrata. Ci sanno fare questi cinesi, anche col nostro melodramma. Dopo tante sperimentazioni, un allestimento che punta a farci rivedere il mondo cinese come lo immaginava Puccini: colorato, fastoso, violento anche nelle tinte, sospeso tra elegia, gioia di soffrire e glacialità. Il mondo di Giacomo, a ben vedere. Successo intenso domenica 30 settembre e lunedì 1 ottobre per il gemellaggio Pechino-Orchestra Sinfonica Romana.
 

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