Turandot simbolica
Aveva ragione Toscanini a chiudere la prima rappresentazione di Turandot, il 25 aprile 1926 alla Scala, con le ultime note scritte da Puccini sulla morte di Liù. Niente finale trionfalistico di Alfano o strutturalistico di Luciano Berio, ognuno a suo modo interessante, ma non confacente alla sensibilità dell’autore.
Cosa è infatti Turandot, la fiaba della donna di ghiaccio e crudele che teme l’amore, se non l’esaltazione della vittima innocente- il personaggio appunto di Liù – come erano state Mimì e Manon, Cio-Cio-San e Tosca, ossia la donna pucciniana, eroina amante fragile e forte? Certo, Turandot ha la glacialità della “femme fatale” tardoromantica. Ed anche se Puccini inventa una Cina da favola, tra suggestioni misteriose, melopee “orientali”, creando un mondo sotto certi aspetti “pre-hollywoodiano”, l’amore rimane il tema predominate, insieme all’eroismo maschile, impersonato da Calaf.
A ben vedere siamo ancora nel romanticismo. Ma un romanticismo intinto di “modernità” (Strawinsky, Berg, Mahler, Debussy) ed aperto a soluzioni “filosofiche” che oscillano tra l’umorismo sarcastico e nostalgico del tempo antico (i tre dignitari), la crudeltà del destino, ed un universo teso verso un Nulla, sfidando la vita. La vittoria comunque è dell’amore.
Opera che chiude definitivamente la grande stagione melodrammatica italiana, Turandot è difficile da mettere in scena, sia per la tessitura aspra richiesta ai cantanti-attori che agli interventi spasmodici del coro e ad una orchestrazione densa di sostrati, raffinatissima, dai colori stridenti (“manieristici”, potremmo dirli) e perciò affascinante. Turandot è lavoro che ogni volta, ad ogni ascolto, seduce. Contiene secoli di tradizione musicale, apertura verso nuovi confini espressivi e quel lirismo patetico che è la cifra vera dell’animo pucciniano.
Un direttore come Juraj Valcuha, 39 anni, è un giovane che non fa il divo, “serve la musica” come dice il basso Marco Spotti, splendido Timur. Nessun gesto inutile, collaborazione fattiva con l’orchestra, nessuna” nuova lettura” tipica dei direttori-star (e superficiali) perché Puccini ha già detto tutto, eppure al contempo armonia tra palco e buca, tra cantanti e coro e colori che emergono negli strumenti come luci nate per la prima volta.
La Liù di Maria Katzaraca è cantante finissima, voce casta, tecnica infallibile: bravissima. Calaf è un prorompente Antonello Palombi, voce di tenore lirico spinto notevole, dai fiati lunghissimi (con qualche comprensibile gigioneria che lo può affaticare), ma di peso; Turandot è Iréne Theoerin, voce metallica, perfetta nel ruolo, insieme ai comprimari e al coro diretto sempre bene da Roberto Gabbiani.
L’allestimento, firmato da Denis Kriuef, può avere sorpreso gli amanti della tradizione con il suo geometricismo orizzontale: un muro di bambù dietro cui si cela la folla, i pupazzi che simboleggiano la gente, il pallone chiaro come luna, Turandot “ingabbiata”, la scarsità di oggetti sul palco nudo, il clown in scena.
Simbolismo? Certo! Ma si tratta di una favola settecentesca, attualizzata ed è quindi logico “ridurla” anche visivamente a pure immagini geometriche che, del resto, non umiliano – come spesso succede ai registi “innovatori” di scuola tedesca – la musica, ma anzi la esaltano.
Si replica il 24, il 28, il 31, il 4 e l’8 agosto a Roma, alle Terme di Caracalla.