Tunisia, la rivoluzione non è morta
«L'uccisione di Chokri Belaid, capo dell'opposizione politica tunisina, è un precedente molto grave. Il mio augurio per la Tunisia è che possa superare questo shock per riuscire a trasformare questo omicidio così triste e drammatico in un segno di speranza, in un'occasione per unire il popolo, ricordando i veri obiettivi della rivoluzione». Parla AdnaneMokrani, teologo tunisino, docente presso la Pontificia università gregoriana e presso il Pontificio istituto di studi arabi e di islamistica (Pisai).
Professore, cosa significa l'omicidio di Belaid per la Tunisia?
«È un atto criminale, terroristico, un passo pericoloso che può condurre ad una violenza senza precedenti. Il Paese sta attraversando una fase molto delicata, di transizione e in questi ultimi mesi sembra che abbia perso di vista il vero obiettivo: scrivere una nuova costituzione. Purtroppo, quelli che hanno vinto le elezioni non hanno saputo gestire il Paese. Hanno compiuto grandi errori, entrando in una logica di divisione e di monopolio del potere, che escludeva la minoranza. Si sono persi litigando su sedie, ministeri e distribuzione del potere, ma per questi giochi è ancora presto. Prima bisogna realizzare i grandi progetti della rivoluzione: la riforma della giustizia, quelle dell'informazione e della sicurezza e garantire una maggiore unità nazionale per gestire questa difficile situazione e una crisi economica molto grave ».
Qual è la situazione attuale?
«La corsa al potere ha danneggiato l'immagine dell'élite politica, ha creato disperazione e ha generato il caos, indebolendo le istituzioni e lo Stato, che non riesce a controllare la situazione. Questo vuoto ha concesso un margine di libertà pericoloso a piccoli gruppi di estremisti, che cercano di aggredire la società, di imporre – in alcuni quartieri – particolari stili di vita distanti dalla tradizione del Paese e dalla sua cultura. Anche prima dell'uccisione di Belais abbiamo assistito alla distruzione di tantissimi mausolei di santi musulmani tunisini: è in atto una guerra contro la memoria, la storia, i simboli religiosi del sufismo e della religiosità popolare tradizionale, per imporre un tipo di tradizione e di religiosità estranei al Paese e il governo, che non ha esperienza ed è distratto da piccoli giochi politici, non ha saputo reagire e non si è dimostrato all'altezza della situazione».
Quali saranno le conseguenze?
«Ora si pensa di allargare il governo, di cambiarlo, hanno già cercato di farlo, ma sinora senza esito. È stato proposto un rimpasto, per formare un governo tecnico, ma l'idea non è stata accettata da tutti. La priorità assoluta adesso è un governo di unità nazionale allargato, che riesca a dare un segno di fiducia e a calmare il popolo. In questo caso, ci sono due ipotesi. La prima è un governo composto da tecnici, che non si candideranno alle elezioni. La seconda ipotesi è un governo non tecnico, ma di unità nazionale, con la partecipazione dei principali partiti. Non so quale sarà l'ipotesi che prevarrà, ma l'importante è che si faccia presto, perché non hanno molto tempo a disposizione. Poi si dovrebbe completare al più presto la costituzione e andare subito alle elezioni. In questo clima di ambiguità politica serve un'agenda chiara, con date fisse. Un primo segnale positivo c'è già stato. Lo sciopero generale… ».
Lo sciopero è stato proclamato in occasione delle esequie di Belaid. Perché è positivo?
«Il sindacato centrale ha avuto un ruolo di primo piano in tutta la storia moderna della Tunisia. Anche durante la rivoluzione è stata l'istituzione più stabile, popolare e strutturata del Paese, anche perché è un'organizzazione plurale, con diverse correnti interne, garanzia di coscienza politica e sociale, che permette una certa unità. Lo sciopero è stato un segno di unità nazionale e di solidarietà. Una manifestazione pacifica, costruttiva, non uno sciopero di protesta: è stato proclamato per un solo giorno, per consentire la maggiore partecipazione possibile ai funerali di Belaid, per manifestare cordoglio, raccoglimento».
Cosa resta della primavera araba, considerando anche ciò che sta accadendo negli altri Paesi dell'area, come Egitto e Siria?
«La definizione primavera araba non mi convince molto, di certo però è stato avviato un processo lungo, con molte tappe. In Egitto la costituzione è stata fatta in modo sbagliato, con una fretta ingiustificata. Lì c'è una situazione molto più complicata e grave. Prima l'ostacolo alla democrazia era la dittatura. Adesso le sfide sono due. Una è rappresentata dall'ancien régime, in qualche modo le persone vicine al vecchio governo sono "nascoste", ma sempre presenti nella struttura dello Stato, nell'amministrazione, nella polizia. Essendoci stata una rivoluzione pacifica, la struttura statale è quasi intatta. La seconda sfida è costituita dagli islamisti. Alcuni analisti hanno pensato, all'inizio, che potessero essere i promotori o i motori del cambiamento. I moderati avrebbero potuto realizzare una fase intermedia tra dittatura e democrazia se avessero gestito bene le cose».
E invece?
«Invece c'è un vero e proprio handicap culturale dell'élite islamista, o almeno di una sua parte importante, che non appare convinta dai principi democratici e rischia di reintrodurre in Egitto la dittatura, coscientemente o incoscientemente, e sta giocando al monopolio o all'esclusione, rischiando molto».
Qual è il rischio?
«Chi governa in questo momento ha l'opportunità storica di diventare garante dell'unione nazionale. Un'opportunità che si rischia di perdere favorendo interessi di gruppo, non di lunga visione. Per fortuna, però, il popolo è ancora sveglio, la rivoluzione non è morta. Le persone sono in cammino, ma c'è bisogno ancora di maturare, di crescere, sia nella visione che nel pensiero politico. Non si improvvisa una nuova generazione politica. Soprattutto visto che i giovani la stanno scoprendo adesso. Finora, infatti, non avevano mai avuto la possibilità di essere attivi politicamente, è per loro una novità assoluta e devono adattarsi, cambiare mentalità. Il cambiamento è lento, soprattutto dopo una dittatura troppo lunga e troppo feroce, che ha creato zone d'ombra e di povertà estrema e non solo dal punto di vista economico, ma anche culturale ed umano. La dittatura è un acido che distrugge il tessuto sociale e l'animo umano. C'è tanto da fare per curare e guarire le ferite molto profonde che sono state inferte alle persone. E non dimentichiamo il nuovo fenomeno, quello degli attacchi contro le donne, degli stupri collettivi… ».
Addirittura ci sono squadre di volontari per difendere le donne nelle piazze…
«È molto grave. Significa che siamo davvero solo all'inizio della rinascita del Paese. L'importante però è non perdere la speranza, non perdere il coraggio e non lasciare il campo vuoto. Ecco perché mi appello a tutti gli amici, i credenti e le persone di buona volontà che credono nei valori umani della giustizia e della pace: la democrazia è una missione universale comune, che richiede la solidarietà anche dell'Europa, dell'Italia, del mondo cristiano e cattolico, che non devono sentirsi degli osservatori esterni e non solo perché ci sono dei cristiani in questi Paesi – soprattutto in Egitto ma anche in Siria – ma anche perché altrimenti si rischia il fallimento, con conseguenze molto brutte per tutta l'umanità. In questo momento non si ha il diritto di fallire».