Tunisia, islamisti, proteste e Covid
Una cosa è certa: non si tratta di una primavera araba, come quella che cominciò proprio in Tunisia nel 2011, ma di un’estate araba caldissima, meteorologicamente e soprattutto politicamente. Cominciamo dai fatti: il presidente tunisino, Kais Saied, ha rimosso venti alti funzionari del governo, appena due giorni dopo aver bloccato il Parlamento e aver assunto il potere esecutivo, licenziando in tronco il primo ministro Hichem Mechichi.
Saied aveva già mandato a casa i ministri di Difesa, Interni e Giustizia, imponendo nel Paese il coprifuoco notturno fino al 27 agosto e vietando gli assembramenti con più di tre persone nei luoghi pubblici. Nel mirino del presidente c’è Ennahda, cioè il partito islamico tunisino, prima forza politica in Parlamento. Il Paese, forse l’unica democrazia della regione, sta affrontando una crisi senza precedenti, con il tasso di disoccupazione al 18% e solo con il 7% della popolazione completamente vaccinato, mentre oltre il 90% dei posti letto in terapia intensiva è occupato, secondo i dati del ministero della Salute.
La folla scesa in piazza è al solito in massima parte composta da giovani, e chiede elezioni anticipate e nuove riforme economiche. Il segretario di Stato Usa, Antony Blinken, ha parlato con il presidente tunisino e lo ha esortato ad «aderire ai principi della democrazia e dei diritti umani», mentre il “ministro degli Esteri” dell’Ue, Josep Borrell, ha chiesto a Saied «il ripristino dell’attività parlamentare, il rispetto dei diritti fondamentali e l’astensione da qualsiasi forma di violenza».
Sembrerebbe trattarsi dell’ormai consueto contrasto tra “fondamentalisti soft” e democratici, per uno scontro che è nato dal doppio, grande imbroglio della primavera araba, che in realtà era una “transizione araba”: da una parte gli occidentali hanno creduto di ravvisare nelle rivolte una tendenza filo-occidentale, radicalmente democratica, e hanno operato, con finanziamenti e azioni dei servizi, per cercare di fomentare la rivolta credendo che avrebbe rapidamente portato a una democratizzazione di questi Paesi. Un esempio fra tutti, le elezioni libiche del 2012, che in realtà sono state un’immensa rappresentazione teatrale, con tanto di dita intinte nell’inchiostro viola, che ha portato a un’infinita lotta tribale, da cui ancora non si è riusciti ad uscire. Dall’altra, le tendenze fondamentaliste appunto soft, cioè non terroristiche, presenti nelle società islamiche con tendenze wahhabite, hanno approfittato della cosiddetta “primavera araba” per canalizzare le rivolte spesso sincere di tanti giovani, imponendo poco alla volta, dove più dove meno, una loro presenza egemonica.
Ma delle conseguenze di questo doppio imbroglio credo non vi sia molto nelle ultime rivolte tunisine. A parte le sempre possibili mire egemoniche o addirittura dittatoriali tipiche del mondo arabo – gli occidentali stanno verificando che Saied non abbia derive in questa direzione −, le recenti rivolte sembrano una “semplice” contestazione dovuta più al Covid 19 che a questioni politiche nazionali o internazionali. Le condizioni della popolazione sono così precarie che c’è da stupirsi che la gente non sia scesa prima in piazza. E mezzo mondo, in fondo, è nelle stesse condizioni.
Forse, quindi, l’avviso che viene dalla Tunisia è rivolto a una platea ben più vasta dello stesso Medio Oriente, ed ha ben poco a che fare con la religione musulmana e molto, invece, con lo stato di degrado economico di quei Paesi che non hanno strutture amministrative adeguate ed hanno le casse vuote. Il Covid 19, non contrastato nei suoi effetti economici con miliardi di dollari o di euro di sostegno agli operatori e alle famiglie, sta creando in decine e decine di Paesi − in Asia, Africa, Medio Oriente e America Latina − situazioni difficilmente gestibili da chi non ha la tessera di entrata all’Olimpo dei Paesi ricchi. Forse conviene accendere tutti i warning possibili e immaginabili aspettando lo scoppio di altre rivolte dei Paesi in cui il Covid è solo un problema supplementare tra tanti altri problemi, e non “il” problema.