«Tu lascerai ogne cosa diletta…»

Ravenna, davanti alla tomba di Dante. Una vita in esilio, ripercorsa con Chiara Mercuri

 

Ravenna, tengo a ribadire, non è solo mosaici bizantini. L’antica capitale imperiale è ricca anche di bellissimi sarcofagi paleocristiani di una tipologia tutta particolare, detta appunto “ravennate”: li si ammira all’interno, ma anche all’esterno delle sue antiche chiese, nei chiostri dei monasteri, nel Musei di San Vitale e della Cattedrale. Del resto, basterebbero tre soli monumenti funebri ad assicurare la celebrità mondiale della città romagnola: il Mausoleo che Teodorico, re degli ostrogoti, si fece erigere verso il 520 (un’affascinante miscela di monumentalità romana e gusto barbarico), l’effige sepolcrale piena di pathos di Guidarello Guidarelli, il condottiero al servizio di Cesare Borgia ucciso a tradimento nel 1501, e infine – perché è su questa che mi soffermo – la tomba di Dante Alighieri, che a Ravenna trascorse gli ultimi anni della sua travagliata esistenza, stroncata il 14 settembre 1321 dalla malaria contratta al ritorno da un’ambasceria a Venezia.

Si trova all’interno di un tempietto neoclassico, in un’area di rispetto e silenzio presso i due chiostri cinquecenteschi di San Francesco, la medesima basilica dove vennero celebrati i funerali del Poeta. Sul suo sarcofago di età romana è scolpito l’epitaffio in versi dettato nel 1366 da Bernardo Canaccio: lo stesso Dante vi si descrive «esule dalla patria terra, che generò Firenze, madre di poco amore», mentre al sommo del sepolcro lo si vede raffigurato pensoso davanti ad un leggio in un bassorilievo del 1483, opera di Pietro Lombardo.

A questa tomba, oggi monumento nazionale, è legato anche un “giallo”. Più volte, ma sempre invano, i fiorentini avevano sollecitato la restituzione delle spoglie del loro illustre concittadino per erigergli un monumento degno. La traslazione da Ravenna fu finalmente consentita nel 1519 da papa Leone X, figlio di Lorenzo il Magnifico, quando la città era ormai territorio pontificio. Senonché quando gli inviati da Firenze aprirono il sepolcro, ebbero la sorpresa di trovarlo vuoto: a trafugare i resti del sommo poeta erano stati i frati dell’adiacente convento francescano attraverso un foro nella parete del tempietto. Ma questo lo si sarebbe scoperto solo nel 1865 grazie al casuale ritrovamento, in un tratto di muro distrutto, di una cassetta contenente le vere “Dantis ossa”, secondo un’attestazione scritta in latino. L’ultimo temporaneo spostamento avvenne nel marzo 1944, durante il conflitto mondiale: per sottrarre le preziose spoglie ai pericoli di un bombardamento, stavolta esse vennero custodite a poca distanza dal mausoleo, sotto un tumulo di terra oggi contrassegnato da una lapide.

Insomma neanche da morto, almeno per qualche tempo, vi fu pace per il poeta che insieme a una brigata di amici aveva inventato “dolce stil novo”, il politico che aveva sognato la democrazia per una Firenze dilaniata da fazioni in lotta per il potere, il combattente nelle campagne militari contro i nemici esterni, il pozzo di scienza che aveva caldeggiato la lingua volgare per farsi capire da tutti, donne comprese. Espulso dalla città amata-vituperata e quindi lontano dai propri affetti, per provvedere al proprio sostentamento Dante era andato ramingo molti anni a servizio di vari signori (ultimi, i Da Polenta), vagheggiando l’avvento di un monarca che avrebbe dovuto ristabilire pace e giustizia a Firenze. Ma proprio dalla tragedia dell’esilio sarebbe scaturito il miracolo della Commedia

«Tu lascerai ogne cosa diletta/più caramente; e questo è quello strale/che l’arco de lo essilio pria saetta./Tu proverai sì come sa di sale/lo pane altrui, e come è duro calle/lo scendere e ’l salir per l’altrui scale» è la celebre profezia che l’avo Cacciaguida fa a Dante nel Paradiso.

Tutto ciò ho ripercorso con Dante. Una vita in esilio di Chiara Mercuri, testo ben documentato ma agile edito da Laterza. L’esilio, per questa specialista in Storia medievale, è come il mar Rosso che si richiude dietro alle spalle, senza aprire alcuna Terra Promessa; ti lascia lì in mezzo al guado, impossibilitato ad andare avanti, impedito nel tornare indietro. Mandare qualcuno in esilio nell’Italia del Trecento, significava volergli fare terra bruciata intorno, distruggergli il nido, buttargli giù la casa pieta a pietra, sasso a sasso, trave a trave.

A partire dal racconto tragico di questa esperienza, la Mercuri ridà vita, con partecipazione personale e un linguaggio coinvolgente, alle vicende biografiche e poetiche di uno dei massimi autori della letteratura mondiale. E con lui morente, scosso dai brividi della malaria, conclude il suo bel libro: «Peccato non poter conoscere l’ultima immagine che gli è passata davanti agli occhi, l’ultima accarezzata per farsi forza davanti all’avanzare del freddo. Forse è quella di Guido [Cavalcanti] che gli sorride ancora giovane, come quando sognavano di essere presi “per incantamento””; o forse è il ricordo struggente di Beatrice che cammina liturgica per le vie di Firenze; o invece è Gemma [Donati, la moglie] a toccare i suoi ultimi pensieri, quella donna a cui aveva potuto offrire così poco; o magari è il padre a riaffiorare benevolo, quel padre che lo aveva pregato di non vivere esposto, quel padre che tanto aveva faticato per preservarlo, che gli aveva suggerito di stare quieto, di volare  basso, di non dare mai nell’occhio. Magari, invece, è Matelda a chiamarlo per l’ultima volta: Matelda che canta e intreccia le sue ghirlande, invitandolo dolcemente ad attraversare il fiume. Non mancarono – questo è certo – d’imporsi tra i suoi ultimi pensieri i volti più amati della sua esistenza, quelli di Giovanni, Pietro, Iacopo e Antonia [i figli]. Ora da quei volti si poteva accomiatare senza più sensi di colpa, ora che li aveva infine, quasi tutti, condotti in un porto sereno, ora che sentiva di lasciare loro pure qualcosa di valore, qualcosa di cui potevano essere orgogliosi, qualcosa che – ne era certo – avrebbe riscattato la sua immagine di un tempo, quella di un padre sconfitto e condannato, con cui erano stati costretti a familiarizzare ancora bambini.

«Dovette rivedere pure l’Arno, mentre scorre lento sotto San Miniato, e infine il suo bel San Giovanni, lastricato di marmi bianchi: bianchi, bianchi come la luce che gli si sta facendo sempre più accecante intorno, quella luce che lo guida e che lo invita ora a seguirlo in quel mondo da cui, stavolta, non tornerà mai più a riveder le stelle».

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