Tu che sei qui in quest’inferno

Come sperimentare, malgrado la malattia, una vita “piena di senso”? È il messaggio che ci giunge dalla breve esistenza di Aurora Morelli

«La pancia era una massa inerte, pesantissima, gonfissima e squartata. Come un pallone di piombo spaccato nel mezzo. Al posto del torace, mi sembrava di avere un insieme di pugnali che affondavano le loro lame ad ogni respiro. Eppure… non mi sentivo disperata, non ero annientata. Non ero sola. Sentivo che tutto questo aveva un senso. Misterioso, sconosciuto, doloroso, spaventoso, terribile… Ma grandissimo… “Magnifico”. Nel senso di grande, non nel senso di carino. E questa cosa più grande di me, l’avrei vissuta insieme a Lui. L’avrei vissuta per Lui. Sono tua. Completamente. Non ho più niente da darti, non ho più niente di mio. Sono tutta nelle tue mani. Tu che sei qui dove sono io. Tu che sei qui in quest’inferno».

La lunga citazione è tratta dal Diario di Aurora Morelli, una giovane calabrese morta nel 2010, un mese prima di compiere 25 anni. Aurora nasce a Crotone il 15 luglio 1985. La sua è una giovinezza segnata da una rara malattia scopertale negli anni dell’infanzia, la sindrome di Marfan associata alla Ehlers Danlos. Ma lei  – una ragazza determinata, vero temperamento di leader – è tutt’altro che disposta a lasciarsene condizionare. La malattia diventa allora una sfida, un trampolino di lancio per scoprire la verità su sé stessa e cavare il senso più profondo di quel mistero per eccellenza che è il dolore.

Nel 2004 consegue a pieni voti la maturità classica presso il liceo “Pitagora” della sua città. Si iscrive poi alla facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università ”Magna Grecia” di Catanzaro. Studi portati avanti tra crisi dolorosissime, frequenti ricoveri e interventi chirurgici. Più volte si trova ad un passo dalla morte, e ogni volta la sua ripresa che ha del miracoloso lascia stupefatti parenti, amici e gli stessi medici che ben presto si rendono conto di avere a che fare con una paziente speciale.

Quando il 10 giugno 2010 muore, le mancano solo pochi esami per finire l’Università. Il 21 ottobre dello stesso anno riceverà la laurea alla memoria. Ma l’Università sua più vera è quella in cui, per un disegno misterioso, lei stessa si trova ad essere docente. Proprio così: dalla sua “cattedra del dolore” Aurora insegna con autorevolezza il significato e il valore dell’esistenza: sfrondata degli orpelli, nella sua essenzialità, essa consiste nell’amare, nell’essere-per-gli-altri, fuori da ogni ripiegamento egoistico.

Una vita piena di senso è meta ambita da tutti. Aurora l’ha gustata in pienezza, e paradossalmente proprio alla scuola della malattia e delle prove spirituali che accompagnavano quelle fisiche, quando sembrava ormai arrivata la fine. Solo chi ha sfiorato l’annientamento totale, infatti, chi per tante volte può dirsi morto e risorto sa veramente apprezzare la vita come dono.

Non solo: ogni volta Aurora è tornata alla vita da testimone, per raccontare agli altri l’esperienza vissuta. Lo fa oggi attraverso il suo Diario, pubblicato per volontà dei familiari. Non tutti quelli che soffrono prove particolarmente dolorose hanno i mezzi per dirle. Lei sì, aveva tutto ciò che serve per trasmettere ciò che aveva visto e sperimentato: conoscenze mediche per descrivere con lucidità e precisione fenomeni che agli stessi medici risultavano incomprensibili, capacità letterarie e soprattutto la sua fede, il suo amore per Dio. E solo chi ama vede oltre le apparenze, sa dire le avventure dell’anima.

Come un palombaro o un sub che si cala in profondità nelle quali nessuno ha osato scendere, Aurora è stata messa nelle condizioni di esplorare abissi di dolore e di amore che solo i mistici riescono a sondare, riportando da quelle profondità tesori che poi metteva a disposizione dei più intimi con grande naturalezza. In questo senso il suo Diario è una miniera da cui attingere a piene mani.

Era una combattente, degna emula di Giacobbe che lottò con l’angelo, di Giobbe che disputò con Dio. «Tutto ei provò” direbbe Manzoni: il dolore fisico e spirituale al più alto livello, quello dell’assenza (apparente) di Dio, e quello invece in cui avvertiva il suo sostegno: fonte, per questo, di gioie indicibili pur in mezzo alle sofferenze.

Ma se Aurora ha potuto affrontare le più terribili notti è stato anche grazie alla vicinanza dei familiari, del personale medico e di tanti amici ai quali lei dava amore e dai quali riceveva a sua volta amore. Il cristiano, infatti, non è un santo isolato, ma è inserito in una comunità, partecipa della realtà del corpo mistico di Cristo.

Uno di questi amici è don Lino Leto, parroco di San Domenico a Crotone. A lui il 28 febbraio 2009 Aurora scriveva questa confidenza, una delle ultime: «Stasera potrei parlare di tante cose insieme con Dio… ma siamo tutti e due senza parole, e restiamo a contemplarci in silenzio… Cos’altro possiamo aggiungere? Che dire di più, più di quello che sto vivendo? Solo il silenzio è degno di questo… entrare e uscire dalla morte. Solo il silenzio è degno di questo misterioso “abbraccio” tra Padre e figlia».

Info: auroramorelli.kr@gmail.com

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons