Trump, questione ambientale e crisi economica

I preoccupanti effetti a lungo termine delle scelte del presidente statunitense a un anno dal suo insediamento alla Casa Bianca
AP Photo/Pablo Martinez Monsivais

Twitter, il cinguettio digitale, permette oggi a Trump di raggiungere uno per uno i suoi elettori saltando il filtro dei media, una delle strutture portanti della democrazia statunitense: struttura non priva di ombre, ma preziosa per aggregare e consolidare gli interessi e gli umori dei cittadini, dei corpi intermedi, delle associazioni culturali, delle categorie professionali e produttive, sindacati ed università, cioè delle diverse articolazioni della società civile.

Una comunicazione diretta, espressa di getto al mattino dopo le notizie TV dall’individuo Trump raggiunge in un istante i milioni di individui che non si curano che essa avvenga in una sola direzione ed assomigli ai discorsi che si fanno al bar, né meditati, né verificati con esperti.

È una trasmissione di reazioni primitive, prima fra tutte della rabbia che insorge come reazione ad ogni contrarietà e cerca di scaricarsi su un individuo od un gruppo, magari indistinto: ne deriva un vero imbarbarimento dei rapporti, agevolato dai cosiddetti “social media”, che in questo caso di funzione sociale ne hanno ben poca e non aiutano la società ad orientarsi verso il bene comune.

In questo anno di presidenza Trump quella che ha più sofferto è stata la salvaguardia dell’ambiente, fondamentale e primario bene comune: Trump in questo primo anno ha trovato modo di vanificare molti provvedimenti posti in essere a livello federale dalle amministrazioni che lo hanno preceduto, provocando così un danno certo, anche se una parte degli stati, tra cui la California si sono opposti ai suoi permessi di nuove trivellazioni, oleodotti, alle cancellazioni dei limiti di emissione, ai permessi di costruzioni in parchi naturali ecc.

Nei commenti sul primo anno di Trump la riduzione delle imposte sugli utili delle grandi aziende e la possibilità di rientro agevolato dei loro capitali accumulati all’estero, vengono spesso descritte come un successo, visto l’impennarsi della borsa e gli annunci di aumenti di stipendi e di nuove fabbriche: eppure questi provvedimenti incideranno negativamente sull’attuale  sviluppo economico a livello mondiale.

Come già ai tempi di Reagan, la riduzione di entrate fiscali USA sarà compensata da maggiori emissioni di Buoni del Tesoro, che per trovare compratori dovranno offrire rendimenti più alti, vicini a quelli dei paesi in crescita; si innescherà quindi una rincorsa dei tassi, simile a quella che negli anni settanta del secolo scorso, che aveva messo in ginocchio il Blocco Sovietico e le nazioni emergenti dell’America Latina, dell’Asia e dell’Africa: esse avevano in quegli anni ottenuto in prestito molte risorse grazie alla disponibilità dei petrodollari, offerti a tassi variabili irrisori, tassi che però poi, per allinearsi con i Buoni del Tesoro USA emessi per la riduzione delle imposte, erano saliti dallo 0.5 fino al 7 per cento.

Negli ultimi dieci anni le grandi banche centrali hanno scelto di favorire gli investimenti ed il lavoro a scapito delle rendite, portando prossimo allo zero i tassi di interesse delle obbligazioni pubbliche e private ed inducendo così una crescita per miliardi di persone; la politica egoista di Trump sta mettendo a rischio tale crescita.

È da augurarsi che nelle prossime elezioni americane Trump perda l’attuale vantaggio, di cui hanno potuto disporre pochi presidenti statunitensi, quello di avere dalla sua parte sia la maggioranza del parlamento che del senato; una situazione che vanifica la contrapposizione di poteri tra presidenza e parlamento, quella che è stata spesso il sale di quella democrazia.

 

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