Trump e le accuse di alto tradimento
Il procedimento di impeachment (messa in stato d’accusa) chiesto per il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, dalla portavoce della Camera, Nancy Pelosi, è un’azione che va oltre la politica. Gli Usa, sotto la presidenza Trump, non sono nuovi allo scontro tra poteri costituzionali, a procedimenti sprezzanti delle istituzioni e dei protocolli democratici, a dichiarazioni e azioni lesive della democrazia e del dibattito politico: la richiesta di stato d’accusa, annunciata lo scorso 24 settembre, apre un processo pubblico non solo su Trump, ma sulla moralità e sull’integrità della presidenza e di chi è chiamato a servirla e rappresentarla ed è un serio esame sulla tenuta delle istituzioni democratiche del Paese.
Nel corso della storia americana, la Camera ha avviato la procedura di impeachment più di 60 volte nei confronti di pubblici ufficiali (presidenti, senatori, giudici), ma meno di un terzo è giunto alla conclusione e nessuno dei presidenti coinvolti, Andrew Johnson e Bill Clinton, ha dovuto rinunciare al suo ufficio. Nixon si dimise prima che la Camera votasse la procedura. Quale destino avrà quello che coinvolge il presidente Trump è una partita aperta e tutta da giocare.
Nancy Pelosi, annunciando l’impeachment, lo scorso martedì, ha spiegato che «le azioni intraprese dal presidente hanno violato gravemente la Costituzione, hanno rivelato fatti disonorevoli di tradimento del suo giuramento, un tradimento della nostra sicurezza nazionale e un tradimento dell’integrità delle nostre elezioni». Un informatore interno, membro della Cia, ha rivelato infatti che Trump avrebbe telefonato al presidente ucraino Zelensky chiedendo di avviare delle indagini su Joe Biden, candidato democratico alle elezioni americane, in cambio di forniture militari e supporto economico.
Poche settimane prima, infatti, ben 400 milioni di dollari destinati al Paese in guerra con la Russia erano stati bloccati senza alcuna ragione e uno dei capi di accusa vorrebbe dimostrare che questi fondi siano diventati una forma di estorsione nei confronti di Zelensky, che ha provato in tutti i modi a garantirsi il supporto statunitense, anche attraverso la conferma di una visita ufficiale alla Casa Bianca, di fatto mai concessa. In questi dialoghi emerge anche il nome di Rudy Giuliani, ex sindaco di New York e fidatissimo consigliere presidenziale, eletto come intermediario nella trattativa con l’Ucraina per avviare in realtà indagini sul figlio di Biden, consulente di una società di gas locale.
«Il presidente ha ammesso di aver chiesto al presidente dell’Ucraina di intraprendere azioni che potrebbero avvantaggiarlo politicamente», ha ribadito Pelosi, sottolineando che Trump sta «facendo dell’illegalità una virtù per il nostro Paese». Un’illegalità che ha tentato anche i funzionari della Casa Bianca, i quali hanno cercato di nascondere la trascrizione della telefonata in un sistema elettronico segreto, usato di solito per proteggere documenti relativi alla sicurezza nazionale e non ad un progetto politico. Dal canto suo il Dipartimento di giustizia non ha preso in considerazione la denuncia perché aveva come oggetto il presidente.
I repubblicani al Senato hanno votato all’unanimità con i democratici per conoscere questo documento d’accusa, che si spera di ottenere senza manomissioni, visto che non pochi report sono stati ritoccati prima di essere resi pubblici, come la sintesi del rapporto del procuratore speciale Robert Muller sul coinvolgimento della Russia nelle elezioni del 2016, presentata dal procuratore generale Barr.
Lo scossone istituzionale non è di poco conto, ma i consulenti di Trump sono già in posizione d’attacco e hanno preparato una loro narrazione spiegando che l’impeachment è un esempio di politica partigiana e di Deep State, cioè di stato parallelo dove si parla di violazioni del comportamento del presidente, ma non delle questioni di vita reale che interessano gli elettori, ai quali spetterebbe l’ultima decisione. Non sono mancati poi tweet e commenti ufficiali di Trump che parlano di “spie” interne e di punizioni esemplari, accompagnati da spiacevoli epiteti rivolti ai giornalisti.
La procedura è certamente un rischio per i democratici che hanno tentennato a lungo prima di decidere, consapevoli che i prossimi 13 mesi saranno segnati da un conflitto sempre più divisivo e che potrebbe rivelarsi vantaggioso per il presidente, che nonostante le criticità e i cali nei sondaggi, ha dalla sua non pochi elettori contrari ad una rimozione anticipata dal suo ufficio.
La parola passa ora alla Commissione giudiziaria che dovrà preparare un documento su cui la Camera dei rappresentanti, a maggioranza democratica, dovrà esprimersi e giudicare se le prove sia sufficienti per giustificare, o richiedere, l’accusa. Se si ratifica l’accusa, il procedimento passa al Senato, controllato dai repubblicani, che potrebbe con molta probabilità bocciare l’intero iter.
In attesa degli esiti delle indagini e del processo legislativo, restano gli interrogativi su un ufficio di presidenza che Trump ha trasformato in diritto irrevocabile da esercitare, non tanto per un beneficio comune, ma come mezzo per rafforzare le proprie attività e il proprio brand, rendendolo praticamente impermeabile ad ogni controllo costituzionale. Intanto la Corte d’appello di New York ha approvato un procedimento contro il presidente, accusato di aver violato uno degli emendamenti costituzionali che prevede la cessione dei propri beni in amministrazione controllata, quando si esercita una carica pubblica. Trump si è rifiutato di farlo, violando ancora una volta la costituzione e il patto democratico con i suoi cittadini, agendo al di sopra di tutte le norme.