Trump, la vittoria dell’outsider
Donald Trump, il miliardario newyorkese accusato di evasione, bancarotta e molestie, ha vinto le elezioni americane e contro ogni previsione siederà nello studio ovale a guida della prima potenza del mondo. Trump sarà il 45mo presidente degli Stati Uniti. Governerà, però, senza un chiaro progetto politico; le borse sono state le prime a dare il benvenuto al neoeletto con un trend negativo. Il suo dilettantismo ha spiazzato analisti e politologi, le sue infelici e volgari uscite hanno confuso i sondaggi (mai come questa volta rilevatesi fallimentari) il suo curriculum, giudicato inadeguato dal suo stesso partito, è stato approvato dai suoi elettori, che di fatto si sono vergognati di confessare il loro aperto sostegno a "The Donald", ma nelle urne a tu per tu con la rabbia, la disillusione o la reale speranza di cambiamento, hanno vergato la X sul suo nome. Non è vero che a votarlo sono state solo persone di bassa istruzione, prevalentemente bianche: dietro i numeri di Trump ci sono anche imprenditori e magnati e c’è un Paese che non è stato capito dai suoi due principali partiti e dagli stessi media. La valanga Trump, a sorpresa, ha giocato a favore anche degli stessi repubblicani che lo avevano ripudiato e che ora, grazie all’effetto trascinamento, hanno conquistato Congresso e Senato.
Hillary ha perso. La sua preparazione, la sua esperienza e un cognome troppo pesante si sono rivelati un boomerang. Il Paese non era pronto ad un presidente donna? Forse. Ma non è questo il piano su cui va letta la sconfitta democratica: donne, afro-americani, latinos non sono bastati a far salire sul podio della storia un presidente donna. Forse perchè alla storia Usa non servono più i primati, ma serve una nuova identità. Un nuovo che Hillary non ha saputo rappresentare a differenza del suo rivale alle primarie, Bernie Sanders, che aveva acceso negli animi un nuovo entusiasmo ma si era dovuto piegare alle scelte dell'establishment.
Il clima nel Paese è incandescente (ci sono stati due morti per una sparatoria in un seggio a Los Angeles) e resterà tale anche perché Trump non è noto per il suo temperamento conciliante; anche se c’è chi sostiene che la condotta da presidente sarà ben diversa da quella messa in atto nella veste di candidato. Donald riserverà soprese su più fronti e così il suo partito. Quello che è certo è che gli Usa necessitano di una riflessione sul loro sistema governativo a cominciare dal modello di rappresentanza, dalle primarie fino alla stessa legge elettorale.
Il sistema elettorale. Trump ha vinto grazie anche a questo sistema dove un voto non conta un voto solo ma le preferenze vengono comunicate a rappresentati statali (i grandi elettori) che di fatto procederanno all’elezione vera e propria. Come funzionano concretamente? Se in uno Stato con 20 grandi elettori guadagna la maggioranza, il Partito repubblicano, anche solo per un voto, otterrà tutti i 20 voti collegiali. Ma questi voti sono davvero rappresentativi delle diverse anime di quello Stato? Inoltre un grande elettore potrebbe pronunciarsi differentemente da quanto hanno espresso i cittadini del suo Stato. Se questi per esempio hanno votato per Hillary, il grande elettore potrebbe decidere di votare per Trump tradendo il voto di chi rappresenta. Questo sistema inventato al varo della Costituzione, alla fine dell’800, serviva a garantire che Washington ricevesse corrette notizie dagli Stati interessati al voto. Oggi forse andrebbe ripensato in maniera proporzionale o comunque più aderente alle diverse anime che vivono in un territorio.
La crisi della democrazia. Ma questo è solo uno dei tanti temi che andrebbero scritti nell’agenda degli Usa e non è detto che coincidano con quelli del suo nuovo presidente. Il miliardario si sta impegnando ad erigere muri e non ad abbatterne, a separare quel “we, the people” con cui la Costituzione comincia e che proprio adesso invece andrebbe recuperato per garantire una pacificazione degli animi e un governo reale del Paese, che si trova a scontare una delle sue più profonde crisi di rappresentatività dove contestazione e chiusura si impongono al pari dell’Europa, anche lei alla prova di muri e populismi.
Trump non è solo un frutto del suo partito e del clima triste post crisi, ma è anche una conseguenza di scelte non felici che i democratici hanno fatto, sordi al reale dolore del Paese, ai sogni di gloria calpestati, alle paure e quelle domande di senso a cui neppure il primo presidente nero ha saputo rispondere fino in fondo. Donald lo farà? E' altrettanto improbabile, ma in questo “rischiatutto” che è diventata la campagna per le presidenziali, gli elettori hanno scelto il rischio pur di dire: «Basta!».