Trump: la saga dell’impeachment
Donald Trump, da mercoledì, diventerà il quarto presidente della storia degli Stati Uniti sottoposto a un procedimento impeachment, cioè di messa in stato d’accusa. Una macchia non solo per la democrazia statunitense ma per la stessa famiglia del presidente che dovrà convivere con quest’accusa per sempre.
La scorsa settimana il Comitato giudiziario della Camera ha stilato i due articoli con i capi d’accusa: abuso di potere e ostruzione al Congresso. Nelle nove pagine sul procedimento di impeachment si spiega che Trump «ha sollecitato attraverso la corruzione, l’intervento di un Paese straniero nella campagna elettorale», poichè in una telefonata e un successivo incontro a Washington ha chiesto al presidente ucraino Zelens’kyj di avviare delle indagini su Joe Biden, candidato democratico alle presidenziali del 2020 e sul figlio, consulente per una compagnia di gas ucraino. Per forzare l’indagine, secondo la ricostruzione della Camera, Trump avrebbe congelato i 391 milioni di fondi destinati alla sicurezza dell’Ucraina. «Il presidente Trump ha abusato dei poteri della presidenza ignorando e danneggiando la sicurezza nazionale e altri interessi nazionali vitali per ottenere un indebito vantaggio politico personale – recita il primo articolo -. Ha anche tradito la nazione abusando del suo ufficio per arruolare un potere straniero nel corrompere le elezioni democratiche». Nel secondo, invece, si accusa il presidente di aver intrapreso una «sfida senza precedenti, categorica e indiscriminata» ostacolando la Camera nelle sue indagini poiché ha ordinato ai funzionari del governo di non testimoniare e si è rifiutato di consegnare i documenti relativi alla telefonata e agli incontri con membri del governo ucraino.
La messa in stato d’accusa presidenziale è il programma principe del palinsesto televisivo della Cnn e di FoxNews; è la prima notizia dei quotidiani nazionali; è il soggetto satirico degli show serali, è oggetto di tweet e condivisioni; è insomma la nuova saga che inchioda gli statunitensi agli schermi tv e a quelli dei telefoni. Il processo politico è un flusso costante di informazioni, denso di dichiarazioni, attacchi, accuse, mezze verità che lo stanno trasformando di fatto in una realtà alterata dalla polarizzazione politica, con il conseguente esaurimento del pensiero critico degli elettori e del pubblico più attento.
A questo mondo di post verità e di ambiguità contribuiscono anche i tweet e le dichiarazioni del presidente che non considerano un crimine le accuse della Camera, ma al contrario una teoria del complotto, una narrazione fasulla da parte del deep-State, cioè uno stato parallelo di burocrati che agisce nell’ombra e non vuole perdere le posizioni di potere acquisito. Al momento la messa in stato d’accusa sembra aver apportato più benefici che onta, alla presidenza di Trump, poiché secondo i sondaggi, la sua base elettorale è sempre più motivata e i finanziamenti alla sua campagna sono cresciuti.
Diversa è l’aria che tira alla Camera dove sia i democratici che i repubblicani stanno serrando le fila per assicurare un voto compatto il prossimo mercoledì. Si sa già che i democratici, salvo poche defezioni dei deputati dei collegi dove Trump è più popolare, voteranno a favore dell’impeachment, mentre i repubblicani voteranno un no compatto, anche se non pochi di loro si sono dichiarati perplessi sul comportamento del presidente e lo hanno apertamente disapprovato. Dopo mercoledì l’impeachment approderà al Senato che dovrà decidere se aprire un processo o meno sui crimini contestati. La costituzione prevede la messa in stato d’accusa in caso di «tradimento, corruzione o altri alti crimini e delitti» e al momento i senatori non sono propensi a far rientrare le azioni di Trump in questa dicitura anche se la frase «alti crimini e delitti» potrebbe includerle.
Trump vorrebbe portare in questa Camera, a maggioranza repubblicana, i suoi testimoni e la sua linea di difesa, per continuare le sue battaglie pugnaci ma molti dei senatori sono contrari ad una lotta sfibrante che non apporterà benefici alla campagna del 2020 e rischia al contrario di trasformarsi in un boomerang anche per loro. Del resto le sconfitte in alcuni Stati, dove Trump era sceso in campo a sostegno di candidati, provano che i toni presidenziali sono risultati sgraditi agli elettori repubblicani, che non sono la sua unica base elettorale. I sondaggi e gli umori di un pubblico confuso decideranno anche questa direzione.