Trump e il popolo
Ho seguito la cerimonia di insediamento di Donald Trump a pochi metri dalla Trump Tower di New York, sulla Quinta Avenue. Mentre lui giurava sulle Bibbie e i manifestanti issavano i cartelli gridando: «Non è il mio presidente». The Donald parlava sugli schermi e la folla ha cominciato a lanciare oggetti, imitando i contestatori di Washington che avevano dato fuoco ad una limousine e a diversi cassonetti di spazzatura. Oltre 200 sono stati gli arresti. E la “Marcia delle donne” a Washington e in altre città, non solo statunitensi, ha ulteriormente manifestato le contestazioni contro la nuova presidenza.
A memoria di statunitensi, mai la proclamazione di un presidente è stata tanto contestata e boicottata. Le foto della spianata del Mall di Washington (incontestabili) mostrano in effetti una folla ben più rada di quella che aveva accolto Obama e anche gli altri presidenti, segno che solo una parte del Paese e cioè i suoi elettori, lo sentono loro rappresentante. E infatti i 16 minuti e 24 secondi del discorso sono stati più indirizzati a loro che a tutti gli Usa. Il Trump presidente sembrava ancora un Trump in campagna elettorale.
Ma ora Trump ha in mano il governo del Paese, e la prova l’abbiamo vista in diretta sul sito della Casa Bianca. Appena pronunciate le prime parole del discorso di inaugurazione, sono sparite ad esempio le pagine web dedicate alla politica dell’ambiente, ai disabili e alle arti: segnali immediati da trasmettere al Paese. La sera dell’insediamento, tra sfilate e cene di gala, ha poi firmato anche un ordine esecutivo per bloccare o perlomeno rallentare la riforma sanitaria di Obama. Messaggi sono stati lanciati anche verso le file repubblicane, quando ha dichiarato che “quello che importa non è quale partito controlli il governo ma se il popolo controlli il governo. Da oggi sarete di nuovo i veri legislatori”.
Giudizi severi ha poi espresso sulla azione dei suoi predecessori, incurante che fossero seduti al suo fianco e che qualcuno appartenesse al suo stesso partito.
«Per troppo tempo – ha detto – un gruppo ristretto di persone ha gestito il governo. La prosperità era solo per i politici. L’establishment ha protetto sé stesso, non le imprese. Non ci sono stati trionfi della gente. Noi non accettiamo che i politici si lamentino senza agire per cambiare le cose».
The Donald ci tiene a presentarsi come imprenditore, come appartenente alla comunità dei semplici e dei dimenticati, ma sappiamo che, per quanto lui provi a discostarsi dalla politica, gestirà la politica da politico e dovrà essere politico. La sfida sarà ridisegnare l’identità degli Stati Uniti ai tempi del nazionalismo.
Infine, Trump ha raccontato al suo popolo un’America triste, intrappolata nella povertà, nei crimini e nelle droghe, schiacciata dalla disoccupazione, dalla mancanza di istruzione e di protezione di persone e imprese. Le paure e l’impoverimento della classe media appaiono proposte come una spinta a riprendersi la ricchezza perduta. La ricetta economica per la grande America la propone il Trump costruttore: strade, ferrovie, ponti. E vi aggiunge lo slogan “assumi personale americano e compra americano”. Ma sulle bancarelle intorno alla Trump tower le magliette e i berretti che inneggiano al nuovo presidente recano l’etichetta made in Bangladesh e riportano alla realtà della globalizzazione economica che, per quanto Trump la stigmatizzi, è la realtà con cui fare i conti, anche nelle sue imprese che sono comunque globali. A proposito, al momento nessun atto conferma che si sia dimesso dal presiederle, nonostante promesse e annunci.
Nel discorso del nuovo presidente non esistono glorie passate e conquiste presenti, non esistono sogni grandi di futuro, nonostante lui utilizzi a più riprese l’espressione “sogno”, ma chi vive tra il Pacifico e l’Atlantico deve armarsi in ogni modo per poter difendere i confini Usa. Trump l’ha ben spiegato: dei sogni del resto del mondo ci si occuperà poco, se si esclude la lotta al terrorismo. Un’America grande da sola (ci si perdoni l’utilizzo dell’espressione “America” e non di “Stati Uniti”, ma è l’uso che ne fa Trump, ndr) è la fine di un modello che nel bene e talvolta nel male è stato fonte di ispirazione anche fuori dai suoi confini: un modello di libertà e di diritto a cui tanti comunque ancora aspirano.