Trump e i dazi: “adda passá ‘a nuttata”

A Donald Trump la globalizzazione non piace. O meglio: non piace più come una volta, quando era conveniente. Ora ha scoperto che mezzo mondo la usa per “fregare” gli Usa. A partire da tali conclusioni, corredate dall’idea che esportare è bene, importare è male (concetto che nudo e crudo difficilmente sarebbe avallato dagli economisti), ha dato inizio ad una offensiva commerciale senza precedenti che colpirà presto o tardi tutti, chi più e chi meno.
In America Latina, i governi stanno facendo i conti. La rappresaglia (o ricatto?) messa in moto ha colpito relativamente la regione, con dazi del 10% e nemmeno applicati su tutti i prodotti, con l’eccezione di Nicaragua e Venezuela, ai quali vengono applicati dazi superiori, ma per una questione di opposizione ideologica ai regimi dittatoriali che governano i due Paesi, mentre nei confronti di Cuba si mantiene il duro embargo commerciale esistente.
Un’altra eccezione è il Messico, col quale vige un trattato di libero commercio (del quale è parte anche il Canada). Trump sta muovendosi con cautela, anche grazie alla pazienza certosina della presidente messicana, Claudia Sheinbaum, che ha reagito con misura ed educazione alle grossolane espressioni di Trump nei confronti del Messico. Il presidente statunitense è rimasto sorpreso quando la sua collega messicana invece di rispondere picche alle accuse in merito al traffico di stupefacenti particolarmente pericolosi, come il fentanyl, gli ha spiegato che il suo governo da un lato lotta contro questo traffico illegale e dall’altro realizza campagne pubblicitarie per scoraggiarne l’uso con risultati molto positivi. Trump questa volta ha portato a casa una idea: fare campagne contro l’uso della droga.
Ad ogni modo, è ancora presto per stabilire quanto incideranno i dazi nei rapporti commerciali Usa America Latina, nonostante si tratti del principale partner commerciale della regione, da sempre interessato alle sue materie prime. Certamente, una recessione mondiale o della sola Cina, oppure spinte inflazionarie derivate da questa non necessaria, quanto imprudente guerra commerciale avranno effetti indiretti. Mentre il clima di incertezza generale indurrà gli investitori alla prudenza.
Dunque, da Washington non arrivano buone notizie. Anche perché compensare i dazi comprando più prodotti Usa, sarà possibile ad economie forti, ma non al Costa Rica o ad Haiti oppure al Guatemala, colpiti senza pietà come è successo col minuscolo Lesotho africano, “colpevole” di esportare 230 milioni di dollari agli Stati Uniti, che non hanno granché da vendere a questo Paese dal PIL pro-capite che non arriva a 1.200 euro l’anno, e penalizzato con dazi del 50%. Succede quando si osserva solo un foglio di calcolo, senza tener conto di chi ci sia dall’altra parte.
Qui si aprono, credo, due scenari. Il primo è quello del negoziato. Già, ma con chi negoziare e che peso dare a tali negoziati? Se ciascuno dei 190 Paesi al mondo vorrà evitarsi problemi con Trump dovrà negoziare accordi bilaterali. Ma l’inquilino della Casa Bianca potrà fare tutto questo lavoro? Dall’altro lato del mondo, ci si chiede: negoziamo con una persona che ha idee peregrine oppure con un governo che mantiene una politica commerciale con continuità e prevedibile? Perché il commercio si basa anche sulla prevedibilità. Nessuno investe decine e centinaia di milioni per stabilire un rapporto commerciale che un singolo presidente può stracciare a piacimento.
Trump ancora non lo sa, ma sta facendo a pezzi la fiducia di cui ha goduto il suo Paese durante decenni e che ha consentito di stabilire solidi rapporti con decine di Paesi. Tutto questo sarà difficile da mantenere in piedi. Il gigante Usa ha mostrato con Trump anche i suoi piedi d’argilla. Chi vorrà fare affari con Washington dovrà anche chiedersi… e se il prossimo presidente fa marcia indietro? Dopodiché cosa accade se tra otto anni un nuovo presidente di stile “trumpiano” vince le elezioni?
Alcuni anni fa, poco prima dei mondiali di calcio del 2006 il governo argentino ebbe la pessima idea di mandare all’aria le forniture di carne alla Germania, che si preparava da tempo all’arrivo di milioni di turisti. Tradire la fiducia dei compratori tedeschi ebbe come conseguenza un calo delle esportazioni di carne alla Germania che non sono mai tornate ai livelli di prima.
Quanti esportatori cercheranno ora nuovi sbocchi commerciali? Il presidente cileno Boric è appena tornato da una visita, apparentemente di successo, in India.
La questione istituzionale mostra anche un altro aspetto. Pochi ricorderanno chi era alla Casa Bianca dal 1980 in avanti. Ma molti sanno che durante quei decenni la politica estera statunitense è stata di assoluta promozione della globalizzazione dei mercati. Molti Paesi sono stati pressati, con metodi non sempre ortodossi, ad aprire i loro mercati ed a sottomettersi alla “bontà” dei mercati globali. Negli anni ’80 si promuoveva dalla Casa Bianca il “Washington consensus”, una sorta di decalogo della globalizzazione applicato senza scrupolo alcuno, ma molto conveniente all’economia statunitense. Erano gli anni in cui la CIA finanziava con alcuni milioni di dollari giornali come El Mercurio, di Santiago del Cile, mezzo stampa legato alla dittatura di Pinochet che stava imponendo (letteralmente) a sangue e fuoco il “modello economico” che la casa Bianca pretendeva di esportare al mondo intero e che il giornale convenientemente patrocinava.
Decine di Paesi poveri, tra questi quelli latinoamericani, vennero indebitati fino al collo per poi – come ebbe a confessare Henry Kissinger – pagare quei debiti privatizzando le aziende pubbliche spesso in cambio dei titoli del proprio debito estero, nel mercato valutati a un 20,30% del valore nominale, ma usati al 100% del loro valore per acquistare dette aziende.
A metà degli anni ’90, la globalizzazione galoppante permise che il segretario del tesoro statunitense, Nicholas Brady, prima negoziasse la ristrutturazione del debito estero di vari Paesi latinoamericani, atomizzando i titoli di quei debiti, comprati da numerose agenzie finanziarie. Dopodiché lasciò l’incarico pubblico, fondò una finanziaria (la Darby, usando come acronimo il suo nome) che si dedicò ad acquistare con quei titoli aziende da privatizzare. Erano gli anni in cui strumenti come il Fondo Monetario o la Banca Mondiale erano considerati da Zbigniew Brzezinski, l’architetto della politica estera Usa post Muro di Berlino, come parte del sistema nordamericano.
È vero, la globalizzazione si è imposta in modo “selvaggio” insieme a certo tipo di capitalismo, che ha avuto nel resto del mondo i propri tifosi. Uno straccio di equilibrio lo si era raggiunto sul piano multilaterale. Si è compresa l’importanza di integrarsi almeno regionalmente. Ma la questione è che oggi alla Casa Bianca qualcuno ha deciso di dare un calcio alla scacchiera e di procedere per conto proprio. America first.
Cosa fare? Aspettare quattro anni con la possibilità che negli Usa si torni alla ragionevolezza, oppure negoziare singolarmente fin d’ora per evitare danni? Gli ultimi 25 anni hanno dimostrato la mutabilità della politica estera del gigante nordamericano. All’unilateralismo e alla guerra preventiva di Bush figlio è succeduto il ritorno al multilateralismo di Obama e Biden, ma interrotto due volte da Trump.
Un grande problema della globalizzazione è stata l’idea di considerarla solo sul piano economico, seguendo un modello di capitalismo che rigetta i valori morali come parte delle motivazioni intrinseche dei suoi agenti. In realtà, si tratta di un processo inerente alla nostra condizione umana e promosso da una sempre maggiore consapevolezza che siamo interdipendenti. Giovanni Paolo II lo aveva colto e per questo invitava a “globalizzare la solidarietà”.
Rifiutare la globalizzazione ha lo stesso senso di tornare alla trazione animale in tempi di treni alta velocità. Alla Casa Bianca, evidentemente, la lucidità scarseggia. Ma è la maggiore potenza economica e prima che si possa tornare al buon senso i danni saranno tanti. Ne faranno le maggiori spese, come sempre, gli ultimi. Potranno la politica e la società civile aiutare a tornare al buon senso, iniettare gli anticorpi di questo egoismo sistematico? “Adda passá a nuttata”1.
[1] È la frase di speranza finale che conclude il dramma teatrale di Eduardo De Filippo, Napoli milionaria.
__