Trucchi per distruggere ricchezza
Chi gestisce una impresa sa che deve operare nell’interesse dei suoi azionisti grandi e piccoli, dei suoi finanziatori, dei consumatori e di chi ne realizza gli obiettivi: i lavoratori dell’azienda. Si viene invece a sapere in questi giorni sui giornali, con grande sconcerto, che da molti anni il fondatore e socio di maggioranza di una grande impresa industriale italiana, assieme ai suoi manager, ha bruciato i capitali degli azionisti, quelli affidatigli dalle banche, ed anche ingentissimi capitali di privati e grandi fondi pensione, quelli tramite cui milioni di risparmiatori di tutto il mondo cercano una certezza per i loro anni di vecchiaia. Un evento le cui responsabilità sono ancora da definire, ma che comunque incrina grandemente la fiducia della comunità economica mondiale nell’economia italiana. Quando negli Usa era successo che capitalisti d’assalto, nella Enron, per far aumentare il valore delle azioni avevano nascosto le perdite aziendali in aziende fasulle, ci era stato detto che in Italia un fatto simile non sarebbe potuto succedere. Ed invece è successo, e per molti anni, perché si è operato a livello internazionale e in “paradisi fiscali” dove non esistono controlli. Si è raggiunta una impensabile voragine di debiti probabilmente perché, sperimentata l’impunità dopo i primi trucchi di bilancio, nel tentativo di coprire i disastri precedenti, usando simili trucchi si è voluto rastrellare capitali sempre più ingenti da investire in nuove attività, dimenticando però che ciò non cambiava la capacità dell’imprenditore, forse modesta. Mi sembra che dalla vicenda emergano vari aspetti. Il primo è il cinismo che spesso accompagna l’attività finanziaria, venuto particolarmente in luce proprio alle prime avvisaglie della crisi, quando a far abbassare le quotazioni delle azioni contribuivano molto gli operatori di fondi agendo al ribasso. Costoro vendono azioni che non possiedono, confidando di poterle ricomperare ad un prezzo più basso. Sono comportamenti che fanno parte del sistema. Ma chi ha detto che il sistema è giusto? Quei guadagni dei fondi ottenuti a spese di chi stava già perdendo i suoi risparmi, a me sembrano frutto di comportamenti da avvoltoi, che non andrebbero più permessi. Un secondo aspetto riguarda la consuetudine degli ultimi 10/15 anni di incentivare i manager con vari compensi extra (diritti di opzione, bonus vari) in caso di notevoli profitti aziendali nel breve termine, capaci di far crescere il valore delle azioni. Questa consuetudine, che ha fatto innalzare alle stelle i guadagni di questi manager, ha però spesso fatto mettere in secondo piano l’opportunità di nuovi investimenti utili nel medio lungo termine (vedi caso Fiat), ed ha in alcuni casi anche indotto a falsificare i risultati per ottenere maggiori incentivi. Un terzo aspetto è stato la costatazione che con la liberalizzazione dei capitali le imprese industriali di prodotti di largo consumo, come nel settore del latte, riuscivano ad ottenere più profitti nel gestire sul mercato finanziario la loro liquidità, piuttosto che nel settore produttivo. Così il direttore finanziario diventava molto più importante del direttore di produzione, almeno finché in borsa non fosse cambiato il vento: un esempio è il caso del disastro della olandese Ahold. Il quarto aspetto è quello della poca affidabilità delle agenzie preposte a certificare i bilanci aziendali: se tali aziende facessero bene il loro lavoro, anche esigendo dal cliente dettagliate spiegazioni per operazioni che non sono in grado di seguire direttamente nel loro complesso, perché in parte internazionali, gli imbrogli verso piccoli azionisti e risparmiatori sarebbero grandemente ridotti. Queste aziende sono dunque corresponsabili dei disastri finanziari, ed andrebbero perseguite anche a livello internazionale chiedendo ad esse i danni quando venisse accertato un loro operato non corretto. Andrebbe anche riesaminato il comportamento delle agenzie di rating, quelle cioè che attribuiscono un grado di affidabilità ad azioni ed obbligazioni. Anch’esse, se volessero, avrebbero verso le aziende internazionali un notevole potere di convincimento per una maggior trasparenza dei bilanci. Infine, andrebbe infine anche esaminato l’operato delle grandi banche d’affari, che fanno utili non tanto prestando denaro, ma piuttosto applicando commissioni iperboliche nel lancio sul mercato di azioni di nuove aziende o nelle operazioni di fusione o scorporo di aziende esistenti. Ma chi è preposto a controllare questi settori vitali del sistema finanziario internazionale? Nessuno purtroppo, perché mentre si sono liberalizzati i movimenti di capitale, non si sono prima create regole da rispettare per tali movimenti e non si è creato un Tribunale internazionale per i reati economici che tali regole facesse rispettare. Esiste in effetti solo un Accordo di Basilea tra le banche centrali per una certa supervisione che però non è abbastanza efficace per controllare chi agisce senza scrupoli. Dopo gli scandali di due anni fa, gli Stati Uniti hanno saputo varare velocemente leggi valide in questo settore relativamente al loro territorio, laddove tutto il mondo investe risparmi, dando modo agli Usa di vivere al di sopra del proprio prodotto lordo. Se per gli Stati Uniti è importante che i risparmiatori si sentano protetti, in Italia invece, grazie a una delle prime leggi del presente governo, si è andati nella direzione opposta, perché si è depenalizzato il reato di falso in bilancio. Adesso si vuole creare una agenzia di controllo sul risparmio: una cosa buona, sempre che non si trasformi in un cavallo di Troia per togliere potere di controllo alla Banca d’Italia, cioè ad una delle poche istituzioni italiane davvero indipendenti. Un’ultima nota. Da anni Città nuova promuove e sostiene una cultura della legalità e quei progetti, come l’Economia di Comunione, improntati alla solidarietà, che puntano sulla crescita di tutti. Un caso come questo della Parmalat ci rafforza nella convinzione che tali proposte sono più che mai attuali.