Troppi investimenti sulle armi
In Piemonte si costruiranno 131 cacciabombardieri per 16 miliardi di euro. Una campagna di Pax Christi per impedirne anche l’export
L’Italia ha deciso di spendere 16 miliardi di euro per 131 aerei da guerra Joint Strike Fightes F35 e il Piemonte è in qualche modo “interessato” a questa commessa che impegnerà le casse del nostro paese fino al 2026. Perché il Caccia multiruolo di quinta generazione da combattimento, realizzato in cooperazione tra Stati Uniti, Italia, Regno Unito, Olanda, Canada, Turchia, Australia, Norvegia e Danimarca, viene prodotto presso la base militare di Cameri, nel novarese. Così mentre gli altri paesi hanno ridotto le spese militari e anche l’acquisto di questi aerei per la difficile situazione economica, l’Italia pare voglia continuare a investire pesantemente sulle armi e su questo progetto, giustificando l’acquisto come una grande “opportunità” per la prospettiva di 10 mila nuovi posti di lavoro.
Dopo un visita fatta nella base militare di Cameri nel dicembre 2010 gli esponenti di Giustizia e Pace, Pax Christi e Rete Disarmo hanno rivelato che «secondo i responsabili militari del programma, si arriverà a circa 600 operai impiegati e non più a 2000 tecnici, numeri diversi da quelli trasferiti dalle linee attualmente operative sull’Eurofighter».
Pax Christi Italia ha lanciato da tempo una campagna di mobilitazione per chiedere di sospendere la partecipazione al progetto dei cacciabombardieri F35. Chiede a tutti di scrivere ai parlamentari anche in vista della discussione sugli F35 che ci sarà in Parlamento nelle prossime settimane.
Per Pax Christi “invece di investire nella scuola, nell’università, nella ricerca, per il terzo settore e per la cooperazione internazionale, si investe incredibilmente in nuovi armamenti” e cita per questo l’articolo 11 della nostra Costituzione con l’Italia che «ripudia la guerra», ma anche il documento della Chiesa sul disarmo del 1976, dove si recita: «La corsa agli armamenti… è un’aggressione che si fa crimine: gli armamenti, anche se non messi in opera, con il loro alto costo uccidono i poveri, facendoli morire di fame». «Bisogna firmare perché è ancora possibile fermare questo progetto, come hanno fatto altre nazioni, per rivedere la scelta a questo programma – spiega il presidente di Pax Christi, il vescovo di Pavia, monsignor Giovanni Giudici -. L’appello che rivolgiamo non è per le armi, ma per la crescita di una coscienza condivisa del bene comune, cioè di servizi dati a tutti, in particolare agli strati sociali in maggior difficoltà, come ha ricordato anche il Papa, dicendo che in tempo di crisi si deve guardare di più alle persone». Il presule ricorda poi che «in Italia abbiamo una legge, la185, che è una conquista dell’opinione pubblica, che chiede di non vendere armi ai paesi dove non si rispettano i diritti umani. È una legge molto avanzata anche rispetto alle legislazioni europee e dobbiamo farla rispettare».
La legge 185 chiede di rifiutare le esportazioni di armamenti «qualora esista un rischio evidente che la tecnologia o le attrezzature militari da esportare possano essere utilizzate a fini di repressione interna». Nel volantino di adesione di Pax Christi è significativo il report su cosa l’Italia potrebbe fare con quei 16 miliardi di euro. Esempi? Costruire 3.000 asili nido con 20.000 posti di lavoro creati; oppure mettere in sicurezza 1.000 scuole e creare 15.000 posti di lavoro. Con i 130 milioni di euro di un singolo caccia F35 si potrebbero acquistare 20 treni per pendolari, beneficiare 20.000 studenti e creare 1.500 posti di lavoro.
Pax Christi i è mobilitata in questi giorni anche sulla questione libica, chiedendo al Governo di dire la verità sulle armi vendute al regime di Muhammar El Gheddafi. Secondo i dati della presidenza del Consiglio sulle esportazioni militari “aeromobili, veicoli terrestri, bombe, siluri, razzi, missili e accessori e apparecchiature per la direzione del tiro”, tutti di provenienza italiana, hanno raggiunto la Libia nel biennio 2008-2009. In questo periodo l’Italia ha autorizzato alle proprie ditte l’invio di armamenti al per oltre 205 milioni di euro, cifra che rappresenta più di un terzo di tutte le autorizzazioni rilasciate dai paesi dell’Unione Europea. Quasi tutte queste operazioni sono riconducibili alle ditte del gruppo Finmeccanica. L’holding italiana è partecipata per la quota di maggioranza (il 32,5%) dal Ministero dell’economia, ed ha come secondo azionista la Lybian Investment Authority, l’autorità governativa libica che detiene una quota del 2,01%. Ulteriori ragioni per riconsiderarne la produzione.