Troppe complicità nella tratta di donne e bambini

La prostituzione e la riduzione in schiavitù sono al centro del messaggio del papa per la giornata della pace. Ma come scardinare la “globalizzazione dell’indifferenza”? Intervista al magistrato Elena Massucco alla scoperta di una realtà inquietante 
prostituzione

Alla globalizzazione dell’indifferenza che genera schiavitù, per riprendere il messaggio del papa per la giornata della pace 2015, Città Nuova ha dedicato il primo piano del numero 20 del 2014 affrontando la questione della prostituzione, collegata strettamente con il fenomeno della tratta delle persone. Un abominio che avviene pubblicamente senza generare, tuttavia, l’urgenza di un’azione efficace di liberazione. Si tratta di «cambiare lo sguardo e riconoscere nell’altro, chiunque sia, un fratello e una sorella in umanità». Al grido di dolore delle vittime della tratta cerca di rispondere concretamente una rete mondiale di suore mentre vengono promossi incontri pubblici per, come osserva Francesco, «agevolare la collaborazione tra diversi attori, tra cui esperti del mondo accademico e delle organizzazioni internazionali, forze dell’ordine di diversi Paesi di provenienza, di transito e di destinazione dei migranti, e rappresentanti dei gruppi ecclesiali impegnati in favore delle vittime».

In un precedente intervento rivolto all’Associazione internazionale di diritto penale, papa Bergoglio è entrato di più nel dettaglio affermando che tali crimini, come anche la corruzione, non potrebbero essere commessi «senza la complicità, attiva od omissiva, delle pubbliche autorità» e che pertanto, in questi casi, «la sanzione penale è selettiva. È come una rete che cattura solo i pesci piccoli». Un’osservazione realistica e inquietante. Per conoscere meglio la situazione in Italia, parliamo con Elena Massucco, magistrato penale a Torino, che fa parte del gruppo di riflessione per il mondo del carcere “Ri-Uscire Persone”, promosso da Umanità Nuova e Comunione e Diritto.

Quali sarebbero gli strumenti idonei per intercettare, oltre la coltre di protezione delle autorità legali, i soggetti realmente responsabili di questi odiosi reati?
«Sin dal 2003 il nostro ordinamento ha previsto il reato di tratta di persone, all'art. 600 del codice penale (= riduzione in schiavitù): un crimine particolarmente odioso perché colpisce il genere femminile ed ha carattere transnazionale. Infatti, si verifica quando dei soggetti (con la complicità delle istituzioni e dei governi locali) prelevano (con l'inganno o con la forza) delle donne da un Paese (generalmente dell'Est Europeo o del Centr'Africa) per trasferirle in Europa Occidentale al fine di farle prostituire, spesso dopo vari passaggi tra intermediari, vendute proprio come oggetti.

Per vincere la loro resistenza ed indebolire la loro forza di volontà, queste donne sono costrette a sevizie di ogni genere (stupri di gruppo, percosse, lesioni, violenze psicologiche e fisiche, ecc), vengono private dei loro documenti di identità, portate in una nazione a loro sconosciuta e di cui non conoscono la lingua e poi letteralmente "buttate" in strada, in qualsiasi condizione climatica, per 13-14 ore ogni giorno, ad aspettare i "clienti". Tutto il ricavato della loro attività sono costrette a consegnarlo ai loro "padroni" e si stima che il fatturato clandestino derivante dallo sfruttamento della prostituzione sia particolarmente ingente (posto che ciascuna di loro può arrivare a “guadagnare” – giornalmente –  la somma "esentasse" di tre/quattro mila euro)».

E per il resto del tempo come vivono?
«Quando non “lavorano”, vengono segregate in casa (talvolta, per impedir loro di uscire a chiedere aiuto, vengono incatenate ai termosifoni). Se qualcuna si ribella non solo viene violentemente punita (mozziconi di sigarette spente sulla pelle, docce gelate, ferite con armi da taglio, ecc), ma riceve gravi minacce di morte e di aggressione nei confronti dei familiari rimasti in patria e ben conosciuti dagli "sfruttatori". Se poi si tratta di donne di origine africana, prima di partire viene loro praticato un rito Woodoo che coinvolge anche i loro familiari e che le costringe ad obbedire senza avere la forza di ribellarsi. Se poi capita di rimanere incinte, vengono costrette ad abortire clandestinamente o i loro figli vengono sottratti alla nascita. Tutto ciò accade nella civilissima Europa, e quindi anche in Italia, perché la "clientela" è del tutto “nostrana"».

E chi sono questi “clienti”?
«Nelle nostre "strade" le donne che si prostituiscono sono, attualmente, tutte straniere e private della loro libertà. Da recenti statistiche si è appurato che i clienti sono uomini giovani normalmente inseriti socialmente, che si avvicinano a questo tipo di esperienza perché preferiscono un rapporto che non sia "complicato" da un rapporto paritario (e quindi "impegnativo") con donne eccessivamente emancipate come quelle dei Paesi europei. Pertanto, finché ci sarà la "domanda" non potrà mancare l’"offerta", che viene faticosamente e scarsamente contrastata dall'attuale disciplina normativa, poiché molto spesso i criminali rimangono impuniti in quanto hanno molti appoggi e protezioni nei loro Paesi d'origine.

Ma non esiste alcun rimedio legislativo?
«I rimedi normativi ci sono: si tratta dell'articolo 600 del codice penale sulla riduzione in schiavitù, cui si aggiunge l'articolo 600 bis sulla prostituzione minorile. Al riguardo ritengo che la legislazione italiana sia tra le più avanzate sul punto; in particolare, per la riduzione in schiavitù, le pene sono così gravi che i processi vengono celebrati dalla Corte di Assise».

E allora, se la norma esiste,  cosa manca per farla rispettare?
«Purtroppo, al momento il processo penale può partire soltanto dalle denunce delle persone offese, che sono ancora troppo poche rispetto alla vastità del fenomeno, perché spesso, al primo sentore di ribellione o alla prima informale denuncia, queste donne vengono eliminate fisicamente ed un dibattimento senza la loro testimonianza in aula rischia di essere fragile senza prove processuali. Inoltre, esse temono pesanti e gravi ritorsioni verso le famiglie d'origine e questo (più di ogni altra cosa) le distoglie da qualsiasi volontà di collaborare con le forze dell'ordine italiane. D'altra parte, poiché questi criminali sono stranieri e godono di potenti protezioni nei loro Paesi di provenienza, da parte nostra non è possibile tutelare adeguatamente non solo coloro che denunciano, ma soprattutto i loro parenti: questa è, purtroppo, una grave lacuna del sistema, che può essere sanata soltanto con una maggiore collaborazione tra gli Stati interessati al fenomeno; trattandosi però o di Paesi emergenti (Africa centrale) o comunque di aree in cui è diffusa e vasta la corruzione e l'illegalità a tutti i livelli, anche governativi (es. Paesi balcanici ed Est europeo), tali accordi al momento non sono realizzabili».

Cosa si può fare in concreto?
«Occorre prendere atto di questi limiti e promuovere tutte le iniziative necessarie, soprattutto a livello internazionale, per porre un effettivo argine al fenomeno, che sembra lontano, ma invece ci riguarda da vicino: basta passare (a ogni ora del giorno e della notte) in certe strade delle nostre periferie. Dopo i populistici interventi contro l’immigrazione, criminalizzata in blocco senza le dovute distinzioni, c’è stata l’operazione Mare Nostrum che ha consentito il salvataggio di oltre 140 mila persone individuate come richiedenti asilo, senza lo stigma criminalizzante della immigrazione clandestina. Tuttavia la complessità, la gravità e la rilevanza del fenomeno è tale che non può essere affrontato solamente con il salvataggio dei naufraghi. Quello che manca, per quanto riguarda l’Europa, è un approccio coordinato e condiviso che assuma il problema come europeo e non come problema del singolo Stato dove l’immigrato arriva per la prima volta. Si tratta di mettere in campo, a monte e non a valle solamente, una serie interventi normativi, organizzativi e gestionali che diano risposte politiche meditate e non solamente emergenziali ai fenomeni di cui si tratta uscendo dalla logica dello scaricabarile o del “non nel mio giardino!”».

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