Trittico d’autore all’Opera di Roma

Tre coreografi di diversa matrice stilistica e periodo creativo, riuniti in un unico spettacolo dalla direttrice del Corpo di Ballo Eleonora Abbagnato, per la stagione del teatro capitolino
Eleonora Abbagnato in "Annonciation"

Bel colpo la serata “Robbins, Preljocaj, Ekman” del Teatro dell’Opera di Roma, sia per l’appropriata scelta di tre coreografi di diversa matrice stilistica, e quindi di atmosfere; sia per la novità dei tre titoli in programma, mai rappresentati prima d’ora al Costanzi. Un excursus anche temporale che va dal 1956, anno di creazione di “The concert” dell’americano Jerome Robbins, al 1995 di “Annonciation” del coreografo franco-albanese Angelin Preljocaj, fino al 1995 di “Cacti” dello svedese Alexander Ekman.

Creazioni tutte contemporanee, escluso “The concert” che comunque, considerando l’epoca, rivela un’arditezza stilistica d’approccio molto moderna seppur ben piantata nei canoni del classico (il balletto è stato eseguito in tutto il mondo, ed è entrato nel repertorio del Royal Ballet nel 1975). La geniale vena creativa del coreografo del New York City Ballet, che si divideva tra il balletto e il musical (sue le coreografie, fra le tante, del celebre “West side story”) sta anche nel mettere in scena un balletto spassoso. “The concert” infatti, il cui titolo originale include “or the perils of everybody” (o i pericoli di tutti), è una creazione di raffinata comicità, ricco di fantasia e humour. Una sorta di fumetto costruito sulle divertenti e bizzarre relazioni tra buffi personaggi causate dalla musica di Chopin che lega i vari quadri.

"The Concert", di Jerome Robbins
“The Concert”, di Jerome Robbins

Robbins mette in scena i pensieri e le fantasie di un gruppo di spettatori intenti ad ascoltare una pianista che esegue alcuni brani di Chopin. I voli pindarici delle loro menti si materializzano in surreali  ed eccentrici tableaux che vedono, ad esempio, pas de deux canzonatori  tra un marito annoiato e una moglie snob, dove lui, con baffi e sigaro alla Groucho Marx, è succube di lei, e tenterà anche di accoltellarla; o la ballerina che, in estasi musicale, non si accorge dello sgabello che le viene sottratto e intreccia la sua gamba con quella del pianoforte. E poi ci sono le amiche chiacchierone zittite da uno spettatore colto e le signorine romantiche; le gag con le sedie pieghevoli, le ballerine portate dagli uomini in braccio come bambole snodabili e poggiate a terra per eseguire una parodia delle Silfidi non riuscendo a coordinare i loro movimenti; e ancora, lo sfoggio di cappelli, le ali di farfalla per una danza di seduzione che diventerà corale, e un notturno balletto di ombrelli aperti e chiusi. Insomma tic e clichè di un’umanità svagata e bizzarra della quale non si può che sorridere.

È da annoverare tra i capolavori assoluti la rapinosa e ispirata “Annonciation” di Angelin Preljocaj, il primo artista a mettere in danza uno dei temi religiosi più ispirati e frequentati dell’iconografia pittorica. L’arditezza di Preljocaj sta nel dare forma e sostanza a un folgorante duetto al femminile denso d’umanità, di carnalità trasfigurata, di fascino spirituale, dove riconosciamo la poetica del coreografo che ha sempre posto il corpo al centro della propria riflessione e scrittura coreografica. In un lungo rettangolo bagnato di luce rossa con una nera panca geometrica in un lato, e nella stilizzazione del movimento ispirato a celebri iconografie di Leonardo e del Beato Angelico, Preljocaj indaga il mistero umano della maternità della Madonna nel momento dell’annuncio dell’Angelo. E indaga il suo sconvolgimento, i turbamenti, le incertezze, le paure, i dubbi, e la presa di coscienza per le conseguenze anche metaboliche dell’evento divino per cui è stata scelta.

L’inizio è in una penombra domestica rallegrata dal vociare festoso di bambini con Maria intenta in gesti di quotidiana femminilità. Le note del “Magnificat” di Vivaldi si interrompono dall’improvvisa apparizione dell’Angelo. Rigido nei movimenti, severo nello sguardo, la sua figura è accompagnata da una partitura elettronica di fruscii e graffi, che poi si fondono e sfumano sulle mirabili note di Vivaldi facendosi tappeto sonoro del duettare con movimenti ora singoli ora all’unisono, dai quali scaturiscono sentimenti di sottomissione ma anche di rivolta: una gamma di stadi emotivi che vanno dallo stupore allo spavento, dall’attesa alla lotta, all’accettazione. L’atto del concepimento sembra avvenire in quella penetrazione mistica che Preljocaj esprime con la testa dell’Angelo che si struscia sul grembo della Vergine, negli abbracci fascianti, e nel candore di un bacio che è soffio di vita nuova. Assolutamente magnetiche, vibranti interiormente, le due interpreti: Eleonora Abbagnato, l’angelo, e Rebecca Bianchi, la Madonna.

Annalisa Cianci e Claudio Cocino in "Cacti"
Annalisa Cianci e Claudio Cocino in “Cacti”

Cambio totale d’atmosfera con “Cacti” di Alexander Ekman, che vede impegnati sedici danzatori del Corpo di ballo capitolino, inizialmente collocati ciascuno su una piattaforma bianca, e successivamente alle prese con dei cactus presi e deposti a terra. Attorno a loro un quartetto d’archi che, mescolandosi ad essi, suonano Haydn, Schubert, Beethoven e Mahler; a tratti smettono per il subentrare dell’orchestra o per momenti di silenzio; quindi riprendono. Creato originariamente per il Nederlands Dans Theater 2, “Cacti” è diventato il biglietto da visita internazionale del trentaduenne coreografo svedese. È una sorta di rito, un lavoro iperfisico, denso d’ironia e di ritmo, a tratti selvaggio come le arti marziali che include nei gesti e nella percussione delle pedane. Seduti, inginocchiati, schiaffeggianti i loro corpi, poi librati in posizioni scultoree, gesticolando e saltellando, i danzatori creano una sincronia ritmica mentre fasci di luce isolano dei duetti, e altri fari laterali o calanti dall’alto illuminano tutti nella vastità del palcoscenico. Scena che verrà poi scomposta lasciando spazio a un duetto divertente: una coppia – Annalisa Cianci e Claudio Cocino – che s’incontra casualmente e comincia a danzare dialogando, per scoprire infine che il loro rapporto è costruito dagli stessi luoghi comuni insignificanti come la coreografia. Il finale è una composizione dadaista, con le pedane quadrate scombinate ed erette a muro con sopra seduti i ballerini in diverse posizioni e con in mano ciascuno la propria pianta offerta verso il pubblico.

Tutto questo per dirci cosa? Niente o tutto, interpretando come si vuole. Stando alle parole del coreografo – «… una riflessione sul nostro modo di osservare l’arte e sulla necessità di “capirla” e analizzarla» -, vorrebbe essere una critica all’arte concettuale. Comunque sia sono 30 minuti di danza, e di teatro, divertente e coinvolgente ben eseguita dall’energia comunicativa degli interpreti.

 

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