Triste referendum
Triste, triste, triste. L’aggettivo più ripetuto nelle dichiarazioni dei politici, nelle opinioni dei giornalisti e nei commenti da ogni parte è semplice: triste. Oltre ottocento persone assistite per ferite causate negli scontri tra la polizia e i cittadini in Catalogna. Non era un bilancio elettorale da desiderare per una giornata che si prevedeva conflittuale, ma che ha stupito per la durezza delle immagini diffuse attraverso media vecchi e nuovi. E la stampa internazionale, per forza di cose, ne fa eco. La Catalogna si è così guadagnata le prime pagine di tutti i più importanti quotidiani europei.
C’è stato o non c’è stato un vero referendum in Catalogna? Si parla di più di due milioni di persone (secondo le autorità catalane 2.262.000) sui cinque che potevano esercitare il loro diritto a votare. Sarà però difficile precisare la cifra esatta, viste le confuse e caotiche condizioni in cui si è svolta una votazione in precedenza dichiarata illegale dal Tribunale costituzionale. Per tanti osservatori anche indipendenti, il compito delle forze di polizia inviate in Catalogna (oltre 10 mila effettivi) era solo quello di impedire ai votanti di sperimentare l’orgoglio di aver compiuto un dovere, anche se in ribellione contro la legalità vigente. Non sarebbero bastate le tante misure adottate dai giudici, che nei fatti svuotavano di ogni possibile legittimità il voto? Non si trattava di un censimento, non c’erano urne legali, né scrutatori per i seggi elettorali…
In effetti, la formula alla fine adottata dal governo catalano è stata quella del “referendum universale”, cioè vota dove e quando puoi. A posteriori si può affermare che l’effetto di questa straordinaria presenza di polizia ha generato un insieme di sentimenti più aggrovigliati che mai all’interno della società catalana, tra indipendentisti come tra non indipendentisti. È vero, purtroppo, che c’è stato chi ha goduto vedendo che lo Stato ha delle notevoli capacità di mostrare la mano dura quando è necessario…
Per il capo del governo catalano, Carles Puigdemont, che a tarda notte ha annunciato la sua intenzione di proclamare in questi giorni l’indipendenza della Repubblica di Catalogna, i fatti del primo ottobre dimostrano chiaramente che i catalani si meritano di essere indipendenti, e si appella alla comunità internazionale per condannare il comportamento del governo spagnolo. Il referendum c’è stato, dice Puigdemont, e lo dimostrerebbe l’abbondante partecipazione di popolo. Era questo l’obiettivo principale del suo mandato: assicurare ai catalani la possibilità di pronunciarsi sulla questione del “diritto a decidere”.
Non la pensa ovviamente così il governo centrale, che vede il tutto come una nuova messa in scena dell’indipendentismo, ma senza nessuna garanzia legale, insistendo ancora una volta sul fatto che il secessionismo non è previsto nella Costituzione spagnola. A sentire gli argomenti avanzati dall’uno come dall’altro lato si ha la strana impressione che parole come referendum, democrazia, legalità, legittimità, doveri… cambino radicalmente significato a seconda di chi le pronuncia. Alle volte con connotazioni chiaramente ideologiche, altre in una mancanza di chiarezza che riporta al relativismo del pensiero debole. Che sia necessario ridefinirle? Altrimenti come si potrebbe avviare un dialogo che consenta oggi a catalani, spagnoli ed europei di capirsi in materia di politica?
Che cosa succederà? Stiamo a vedere. Se la tensione tra governo centrale e regionale continuerà e la pressione sui funzionari dell’amministrazione (denunce, multe…) non cesserà, la situazione potrebbe diventare insostenibile e arrivare perfino all’applicazione dell’articolo 155 della Costituzione, cioè la sospensione dell’autonomia riservata ai catalani. Mentre il governo di Barcellona potrebbe proclamare l’indipendenza…