Triste addio a Pelé, “O’ Rey” del calcio
«Pelé vede il gioco suo e dei compagni: lascia duettare in affondo chi assume l’iniziativa dell’attacco e, scattando a fior d’ erba, arriva a concludere. Mettete tutti gli assi che conoscete in negativo, poneteli uno sull’altro: stampate: esce una faccia nera, non cafra: un par di cosce ipertrofiche e un tronco nel quale stanno due polmoni e un cuore perfetti: è Pelé. Ma ce ne vogliono molti, di assi che conoscete, per fare quel mostro di coordinazione, velocità, potenza, ritmo, sincronismo, scioltezza e precisione». Probabilmente solo il magistrale collega Gianni Brera poteva descrivere con tanto leggiadro amalgama di cronaca e poesia “O’Rey”, il re di oltre un secolo di calcio: Edson Arantes Do Nascimiento, per tutti “Pelé”, del quale dobbiamo tristemente archiviare anche la dipartita avvenuta giovedì 29 dicembre.
Poco più di due anni dopo dall’epilogo terreno del suo storico rivale, Diego Armando Maradona, ci lascia dunque anche il calciatore probabilmente più iconico sul piano planetario per decenni, prima dell’avvento delle ipertrofie mediatiche focalizzate su formidabili atleti del calcio moderno. Spesso legato a un inevitabile dualismo con il suddetto mitico “10” argentino, probabilmente improprio sia per le diverse caratteristiche tecniche e di ruolo, sia per le epoche già diverse di agonismo, ha rappresentato il simbolo dello strapotere brasiliano nel calcio per almeno un ventennio. Aveva solo appena 18 anni, quando il mondo ne riconobbe gli spiritati occhi rilucenti su una carnagione evidentemente afroamericana ai Mondiali di Svezia del 1958, quando batté alcuni record di precocità giocando e vincendo il torneo con il Brasile, realizzando ben tre gol in semifinale e due in finale. Da lì, l’uomo conosciuto come “la perla nera” divenne uno dei personaggi più ricercati e noti nel globo, fino ad oggi.
Era ricoverato nell’ospedale Albert Einstein di San Paolo dallo scorso 29 novembre, per un ciclo di cure dopo essere stato operato nel settembre del 2021 per un tumore al colon, ma aveva contratto anche il Covid. Lascia la moglie Nomi Aoki e sette figli: «Tutto ciò che siamo, è grazie a te. Ti amiamo infinitamente. Riposa in pace», ha scritto la figlia Kely Nascimento annunciando su Instagram la morte del padre, in serata. «Pelé ci ha lasciato oggi. È andato in paradiso con Coutinho, suo grande compagno al Santos. Ora è in compagnia di tante stelle eterne: Didi, Garrincha, Nilton Santos, Sócrates, Maradona. Ha lasciato una certezza: non c’è mai stato un numero 10 come lui. Grazie Pelé», ha scritto su Twitter il Presidente eletto del Brasile Luiz Inacio Lula da Silva.
“O’ Rey” verrà sepolto in un cimitero verticale considerato il più alto del mondo, nel municipio di Santos, secondo i colleghi della testata O Globo, che ricorda che il campione brasiliano acquistò anni fa una serie di loculi per sé e la famiglia nel Memoriale della Necropoli Ecumenica. Il cimitero è affacciato sull’Estádio Urbano Caldeira, il tempio di quel Santos dove O Rei debuttò da professionista e divenne una leggenda: «Non sembra un cimitero», disse Pelé al momento dell’acquisto del loculo al nono piano della struttura. Per la veglia sarà aperto lo stadio Urbano Caldeira, meglio conosciuto come Vila Belmiro, «lì dove Pelé ha incantato il mondo», come annunciato dal club. Il feretro di Pelé sarà poi portato in un corteo funebre per le vie della città, prima di celebrare una cerimonia religiosa in forma privata, nell’arco di tre giorni di lutto nazionale.
Difficile certo realizzare come simili icone possano lasciarci: «Se il calcio non si fosse chiamato così avrebbe dovuto avere come nome Pelé», scriveva Jorge Amado. Unico calciatore a vincere tre mondiali, con 1281 reti segnate in 1363 gare complessive, abbinava la rara dote di ambidestro a creatività, velocità, dribbling e colpo di testa. Un calciatore pressoché perfetto, forse l’unico di sempre per il ruolo di centravanti. Anche se egli stesso, alla vista di Luis Nazario de Lima “Ronaldo”, nel 98’, ebbe a dire che “il Fenomeno” connazionale fosse qualcosa di mai visto anche per lui. Nominato “Atleta del secolo” dal CIO nel 1999 e calciatore del secolo in ex aequo con Maradona, è stato con Muhammad Alì l’atleta più noto della storia del ventesimo secolo, famoso nei punti più remoti del mondo. Accolto da “Rey” in 88 nazioni, ricevuto da 70 premier, 40 capi di Stato e tre Papi, si ricorda come in Nigeria venne dichiarata una tregua di 48 ore ai tempi della guerra con il Biafra affinché tutti, da entrambi gli schieramenti, potessero vederlo giocare.
Lo Scià di Persia lo aspettò tre ore in un aeroporto solo per potersi fare una foto con lui, mentre le guardie alla frontiera cinese abbandonarono i loro posti e si spostarono a Hong Kong, attirandosi le ire del regime, solo perché avevano saputo che “la Perla Nera” si trovava quel giorno nella città. In Colombia, quando Pelé fu espulso, caso più unico che raro, la folla invase il campo costringendo l’arbitro alla fuga, finché il brasiliano non tornò in campo e la folla, soddisfatta, tornò disciplinatamente sugli spalti. A 20 anni, il Brasile lo dichiarò “tesoro nazionale” proibendone la cessione all’estero: se così non fosse stato, il presidente dell’Inter, Angelo Moratti, lo avrebbe portato in Italia, cambiando la storia.
Immortalato da Andy Warhol nella galleria dei suoi ritratti, Pelé non ha mai dimenticato le proprie poverissime origini: Baurù, la città brasiliana dove cominciò a giocare, gli ha dedicato una statua, ricordata anche nelle Cento canzoni (due le incise lui stesso, nel 1969, assieme alla grande Elis Regina) che narrano iperboli su iperboli, numerose quanto i suoi gol. Soprannominato Dico dai suoi genitori, dopo la devastante sconfitta della nazionale brasiliana nel mondiale del 1950, a 9 anni fa un’audace promessa al padre piangente, promettendogli che un giorno avrebbe portato il Brasile alla vittoria dei mondiali. Così, un torneo giovanile di calcio dove fu notato da un famoso osservatore segnò poco dopo la sua vita: prima di tutto perché, pronunciando male il nome di un portiere, fu soprannominato “Pelé”; poi soprattutto, perché dopo il torneo il talent scout offrì a “Dico” la possibilità di provare a giocare con il Santos FC.
Il resto è una storia inarrivabile, che è bene tramandare con il tratto più identitario di Pelé: i suoi più bei gol, al di là della cinematografica rovesciata plastica nel film “Fuga per la vittoria” o del famosissimo gol di testa all’Italia nella finale del mondiale 1970, con il nostro terzino Burgnich annichilito dalla sua sfida alla forza di gravità. Conditi da quell’inconfondibile “ginga”, lo spirito gioioso e scanzonato tipicamente brasiliano, che ne connotava la figura. Chi scrive si congeda suggerendo il video dei cinque gol più significativi, immortalati in un’epoca in cui registri e statistiche non erano così affidabili.
Ma forse il più bel gol in assoluto non fu neanche mai ripreso: lo stesso Pelé, in più interviste, si è detto sicuro che fra il migliaio abbondante di gol realizzati, il migliore fosse quello del 2 agosto 1959, realizzato allo stadio Rua Javari di San Paolo, in una partita valida per il campionato paulista. Vestiva il suo inconfondibile numero 10 del Santos, club con cui ha giocato per tutta la carriera, prima di chiudere con un biennio negli Stati Uniti, ai New York Cosmos: per la riedizione di un documentario sulla sua vita, “Pelé eterno”, il gol fu ricreato digitalmente, facendo felice lo stesso Pelé, che si rammaricava perché la storia non potesse archiviarlo. Il gol, visibile in questo video, è stato ricreato in base ai racconti dei presenti e delle poche cronache presenti, mentre esiste la foto del colpo finale. Addio “re”: chi ama quel romanzo popolare planetario che è il calcio oggi piange.
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