Il triste addio di Eni Aluko

Eni Aluko, avvocato e nota calciatrice della Juventus femminile, lascia l’Italia, stanca di sentirsi “altro” rispetto a una città dove, nonostante non abbia subito mai gesti razzisti, si è spesso sentita «guardata come una ladra».

È una delle stelle della crescente Serie A di calcio femminile, Eniola Aluko, 32 anni, nata in Nigeria e cresciuta in Inghilterra, in forza alla gloriosa Juventus Women, che ora dice basta all’Italia. «Mi sono stancata di entrare nei negozi e avere la sensazione che il titolare si aspetti che rubi qualcosa – scrive sul Guardian, – oppure può capitarti tante volte di arrivare all’aeroporto ed essere trattata come Pablo Escobar, per via dei cani anti-droga intorno a te». Avvocato, columnist del quotato quotidiano londinese, da sempre impegnata per la lotta al razzismo e a ogni forma di discriminazione, Aluko ha deciso di tornare in Inghilterra, anticipando il suo addio alla squadra bianconera, dove peraltro si è sempre trovata molto bene. Eppure, per le strade di Torino, qualcosa non le è mai quadrato del tutto: «A volte – spiega – Torino sembra un paio di decenni indietro rispetto all’apertura verso diversi tipi di persone. E mi sono stancata». Ragioni personali, senza dubbio, per le quali chiarisce, a proposito di un rischio razzismo spesso evidente nel nostro Paese: «Non ho mai avuto attacchi razzisti dai tifosi della Juve, né in campionato. Anche se c’è un problema nel calcio italiano e in Italia. La risposta che viene data mi preoccupa: dai presidenti ai tifosi del calcio maschile, che lo vedono come parte della cultura del tifo».

La storia dello zainetto…

Un addio abbastanza sorprendente, anche se in qualche modo leggibile in certe inequivocabili esternazioni che “Eni” aveva già messo nero su bianco a settembre, proprio sulla rivista online The Players’ Tribune, in occasione dell’uscita del suo libro autobiografico «They Don’t Teach This» (“Questo non te lo insegnano” ndr), dove, tra le altre cose, colpisce la storia dello zainetto: «Un giorno a Torino sono entrata in un minimarket sotto casa. Appena ho iniziato a fare la spesa, ho sentito una donna chiedermi se potevo lasciare il mio zaino all’ingresso. Lì per lì non avevo capito e ho continuato con la spesa: un pacco di pasta, un vasetto di pesto. Notando nel frattempo che nessun cliente aveva lasciato le borse all’ingresso (…). Allora sono andata dalla donna e le ho detto: “Vedo che non ci sono altre borse all’ingresso e ci sono altre persone nel negozio. Perché mi ha chiesto di lasciare il mio zaino qui?”. Lei ha risposto: “È la regola del negozio”. Ho replicato: “No, no, no, non è la regola. Lei pensava che io volessi rubare la pasta e il pesto”. Poi le ho mostrato il logo della Juventus sul mio zaino e le ho spiegato che è la squadra in cui gioco. E solo a quel punto lei ha realizzato che non avrei rubato niente. “Oddio, mi dispiace tanto”. Ma per me non era abbastanza. Le ho detto: “Ascolti, lei non può fare una cosa del genere. Ci saranno tante altre persone che verranno qui e non saranno della Juventus, ma meritano di essere trattate come ogni altro cliente”. Era mortificata. Ma ve lo garantisco: se un’altra ragazza nera entrerà in quel negozio, una cosa del genere non le succederà più».

“Eddie”, il pallone e “Il Buio oltre la siepe”

Di famiglia nigeriana trasferitasi a Birmingham quando lei aveva un anno, Eni Aluko di scene simili ne ha, purtroppo, vissute più di una, nonostante questo non le abbia impedito di essere oggi una delle undici inglesi ad aver indossato più di cento volte la mitica casacca della nazionale. Ad esempio, quando a un colloquio sull’orientamento lavorativo rivelò di volere diventare giurista, la donna dall’altra parte della scrivania replicò quasi imbarazzata: «Perché non l’infermiera?». Un altro aneddoto su cui riflettere, riguarda il fatto che, dall’età di cinque anni, quando giocava a calcio con il fratello Sone e i suoi amici, iniziò a farsi chiamare Eddie, perché era l’unica ragazza a correre dietro al pallone… e fu accettata, almeno fino a quando qualcuno pronunciò le tristi parole magiche «lei non può giocare, è femmina». Che poi Eni sia diventata una calciatrice professionista, abbia lavorato in più di uno studio legale e abbia una rubrica fissa di calcio sul Guardian, è invece ciò che più conta davvero: grazie a motivazioni contenute anche, come ha raccontato nella sua autobiografia, nel libro “Il buio oltre la siepe” di Harper Lee, riletto più volte, perché dalle arringhe del protagonista (l’avvocato Atticus Finch) ha tratto la forza per «combattere il sistema e perseguire la giustizia a tutti i costi». Ed è forse anche per questo che ha da poco aderito al progetto Common Goal, la piattaforma benefica lanciata due anni fa dal calciatore spagnolo del Manchester United, Juan Mata, attraverso la quale gli iscritti, come il capitano della Juventus, Giorgio Chiellini, cedono l’1% del proprio salario a organizzazioni impegnate nel sociale che scelgono personalmente.

«Bisogna continuare a parlare, nei momenti in cui è importante farlo. Bisogna continuare a insistere, per educare le persone e far loro cambiare idea. Certo, non vincerai sempre. Ma a volte sì» conclude Eni su The Players’ Tribune. Al di là di motivazioni personali ed emotive di carattere soggettivo e pertanto difficilmente sindacabili, quello di Eni Aluko è un addio che induce comunque a interrogarci su quanto, ogni giorno, i nostri occhi siano propensi a guardare con curiosità e benevolenza, o piuttosto con diffidenza e pregiudizio chi, semplicemente, è diverso da ciò che conosciamo meglio solo perché più frequente nel nostro piccolo vissuto.

 

 

 

 

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