Trieste e l’Italia nella guerra mondiale a pezzi

Oggi siamo nel pieno di un cambiamento d’epoca che non offre molte certezze. La crisi della nostra democrazia è sempre più evidente considerando l’astensionismo crescente che interessa anche le elezioni locali, come si è visto in Umbria ed Emilia Romagna. Al fondo si percepisce di contare poco o nulla davanti a scelte decise in altre sedi da potentati finanziari senza volto.
Come ha detto, con grande realismo, Giorgio La Pira, «se non si incide sulle leve economiche non resta altra potestà che le prediche».
Si confonde spesso la democrazia economica con la concessione ai lavoratori di partecipare alla distribuzione degli utili di un’azienda, mentre la vera sfida è quella di determinare cosa, come e per chi si produce.
LA LEGGE 185/90
Quando Igino Giordani, deputato dc della Costituente e cofondatore del Movimento dei Focolari, presentò nel 1949, assieme al socialista Umberto Calosso, la prima proposta di legge sull’obiezione di coscienza al servizio militare, alcuni espressero la loro contrarietà perché, in tal modo, si sarebbe aperta la strada all’obiezione degli operai alla produzione bellica. Ed è ciò che è avvenuto negli anni 70 -80 da parte di alcuni dipendenti di società del settore delle armi per sostenere una piattaforma produttiva alternativa orientata alla pace.
Si deve alla loro testimonianza, pagata duramente, l’approvazione della legge 185/90 che non ha vietato la produzione di armi ma ha introdotto precisi limiti alla loro esportazione in linea con la Costituzione repubblicana.
Così, assieme ad una parte importante della società civile a partire dai missionari, si deve all’obiezione di coscienza delle operaie della Valsella Meccanotecnica, controllata dal gotha del capitalismo italiano, la dismissione della produzione di mine che dal bresciano hanno invaso mezzo mondo.
Sono stati anni che hanno visto l’impegno diretto di sindacalisti di primo piano, come Alberto Tridente della Fim Cisl,e poi del sindacato unitario della FLM. che indipendente da ogni cinghia di trasmissione dai partiti, ha portato avanti una linea di politica industriale contraria a quella poi decisa trasversalmente, a partire dagli anni 90, per Finmeccanica, ora Leonardo, di dismissione di produzione d’avanguardia in campo tecnologico a favore di quello militare.
Una scelta considerata dissennata ad esempio da Stefano Zara, presidente di Confindustria Genova dell’epoca, intervistato a lungo su cittanuova.it. Tale direttiva, di conversione dal civile al militare, che si avvaleva della società di consulenza Mc Kinsey, è stata seguita con forte determinazione fino ai giorni nostri, se si pensa alla recente svendita da parte di Leonardo dell’Industria italiana autobus, strategicamente importate per una mobilità pubblica in linea con la transizione ecologica, per concentrarsi sulla produzione di armi.
La legge 185/90 prevedeva un fondo per la conversione produttiva al civile che non è stato mai alimentato. Un centro di ricerca sulla conversione industriale promosso dall’università cattolica di Milano ha ricevuto sempre meno risorse ed è rimasto in piedi per poco tempo grazie al contributo degli stessi operai obiettori di coscienza.
Ora quella legge sta per essere svuotata di contenuto realizzando l’obiettivo delle aziende del settore della difesa che hanno sempre visto in tale normativa un ostacolo alla loro competitività a livello internazionale. Di fatto, l’Italia si è fatta trovare pronta davanti alla guerra mondiale a pezzi ,che ci tocca sempre di più da vicino, perché il nostro Paese sta salendo, di anno in anno, la classifica dei primi esportatori di armi come certificato dal Sipri.
Questo primato, tuttavia, non comporta un grande successo in termini di occupazione e di innovazione tecnologica, come si afferma comunemente, ma solo di utili per gli azionisti. Di gran lungo più positivi gli effetti delle stesse risorse in altri settori a partire dalla conversione ecologica,come evidenziato in più studi sintetizzati in un dossier prodotto da Gianni Alioti, a lungo responsabile dell’ufficio internazionale della Fim Cisl (della scuola di Tridente), e Maurizio Simoncelli di Iriad per il laboratorio permanente di riconversione economica promosso da diverse realtà per affrontare una grande questione rimossa e cioè la proposta di una politica industriale alternativa a quella delle armi. Non basta, infatti, solidarizzare con i portuali genovesi che rifiutano di essere parte della filiera bellica se non si finanzia e sostiene un tipo di economia concretamente migliore e diversa.
LA NECESSITTA’ DI UNA DIVERSA POLITICA INDUSTRIALE
In Sardegna, il comitato che si batte contro la produzione di missili e bombe della Rwm Italia ( controllata dalla multinazionale tedesca Rehinmetall) ha promosso il collegamento e il consorzio tra una rete di imprese libere dalla guerra che hanno registrato il marchio internazionale Warfree. È l’esempio di una linea che dovrebbe orientare le risorse europee previste per i siti a difficile transizione ecologica: il Just transition fund destinato per l’Italia al Sulcis e a Taranto.
Il laboratorio si concentra su casi concreti come appunto quello del Sulcis Iglesiente e Torino dove, alla drammatica crisi dell’ex Fiat, si vuole rispondere con lo sviluppo della presenza di Leonardo in un regione dove è forte la spinta a far crescere il polo di Cameri dedicato ai caccia bombardieri F35. Prospettive non condivise dal Centro studi Sereno Regis e dalla pastorale sociale del Piemonte e Valle d’Aosta che sono capofila del laboratorio di riconversione.
È chiaro il rischio di apparire velleitari davanti alla direzione sempre più decisa dell’Unione europea di “porre l’economia in assetto di guerra” dopo il precipitare della crisi in Ucraina con l’invasione decisa da Putin il 24 febbraio 2022. Ed è perciò evidente la necessita di affrontare il nodo del protagonismo della politica europea di fronte ad uno scenario internazionale che ormai in molti paragonano a quello dei “sonnambuli” che si avviarono verso il mattatoio del primo conflitto mondiale. Una persona ben sveglia come l’arcivescovo di Palermo Corrado Lorefice, è stato l’unico a dire che la von der Leyen non ha mai pronunciato la parola “pace” quando è andata in visita nella sua città. Un testimone sensibile e innamorato del sogno europeo come lo scrittore triestino Paolo Rumiz confessa il suo sgomento davanti all’attuale volto dei vertici europei.
Continuare ad affermare la necessità di un riarmo da parte dei Paesi Ue che, senza Gran Bretagna quindi, già spendono nel settore militare il triplo della Russia, vuol dire dirottare risorse destinate ad altri tipi di difesa, quella della salute o dell’ambiente, verso le armi come una necessità imposta anche dalla strategia degli Stati Uniti annunciata dal ritrovato presidente Donald Trump.
Le imprese europee spendono molto e male perché non sono coordinate tra loro e si fanno la concorrenza per accaparrare clienti discutibili nelle fiere di armi dove partecipano ai massimi livelli. La crisi in atto in Medio Oriente, la carneficina a Gaza, dovrebbe sollecitare un confronto serio, ma la crisi della democrazia si palesa con la mancanza di discussone pubblica su queste scelte determinanti. Si pensi al concetto strategico della Nato approvato a Madrid nel giugno 2022.
IL DESTINO DEL PORTO DI TRIESTE
Il destino del porto di Trieste, nella strategia geopolitica dello scontro mondale tra Usa e Cina si gioca in tali sedi. Così come l’impossibilità dichiarata del nostro Paese ad aderire al trattato Onu del 2017 di messa al bando delle ami nucleari in forza della fedeltà alla dottrina nucleare dell’Alleanza atlantica per la quale abbiamo decine di ordigni B61 12 nelle basi di Ghedi e Aviano.
È chiaro che la logica sempre più prescrittiva del riarmo pone la questione di una chiamata alle armi, al dilemma che pensavamo appartenente ad altre epoche sul decidere “per cosa morire e per cosa uccidere” come fa notare Vittorio Emanuele Parsi, un noto studioso realista di relazioni internazionali. I vertici militari tornano a parlare senza infingimenti di “scuola di guerra”. Non potremo stazionare a lungo solo sul dilemma se fornire o meno armi a chi cade in battaglia anche per noi, se questa è la narrazione corrente.
Si ripresenta, perciò, alle nostre coscienze la domanda che alcuni giovani posero nel 1955 a don Primo Mazzolari. “Dobbiamo prendere le armi? Per usarle contro chi?” Alcuni di loro avevano fatto anche la Resistenza. Parlavano quindi seriamente. Mazzolari rispose con il “tu non uccidere”.
Oggi si ripropone il dilemma lacerante sull’uso della violenza. Come ha detto papa Francesco a Redipuglia nel 2014, davanti ai resti di 100 mila giovani immolati in quella inutile strage che alcune tesi non hanno mai smesso di esaltare, oggi come 100 anni fa esistono «interessi geopolitici, pianificatori del terrore e le industrie delle armi che ripetono il grido di Caino: “A me che importa?”».
Per non essere pedine irrilevanti, o semplici fornitori di armi e carne da cannone, nello scontro geopolitico della guerra mondiale a pezzi, a noi è richiesto di capire insieme cosa vuol dire non solo fare una scelta personale di pace e obiezione di coscienza, ma di mettere i pratica una politica di nonviolenza attiva.
Il contrario dell’indifferenza e dell’utopia tragica della guerra senza ritorno nell’era nucleare. Sono queste le ragioni alla radice di un laboratorio permanente di riconversione economica e pace. Il segretario generale della Cgil, Landini, ha lanciato la proposta di un giubileo dei lavoratori per la pace. Questo comincia qui da questi luoghi, da questa città, da questo porto.
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