Trieste e la questione del suo porto franco

Si discute tra i cattolici della loro poco incidenza culturale e politica, ma il processo che si vuole avviare con la Settimana sociale di Trieste può segnare un punto di svolta nell’affrontare i punti nodali del nostro tempo. La guerra e la pace soprattutto, che interessano lo strategico porto commerciale della città
Il porto franco di Trieste garantito dal 1947 fu istituito dall?imperatore Carlo VI d'Asburgo nel 1719. ANSA/ UFFICIO STAMPA ++HO - NO SALES EDITORIAL USE ONLY++

Domenica 7 luglio, quando papa Francesco arriverà a Trieste al termine dei lavori della Settimana sociale dei cattolici in Italia, gli elettori francesi saranno attesi alle urne per decidere, con il metodo del ballottaggio, la composizione dell’Assemblea nazionale dopo la vittoria al primo turno del partito di estrema destra guidato da Marine Le Pen che punta a conquistare la maggioranza assoluta nella Camera bassa innescando un cambiamento destinato a ripercuotersi sugli equilibri dell’Unione europea.

Molti dei cattolici democratici che hanno governato l’Italia per oltre 40 anni dopo la seconda guerra mondiale si erano formati sui testi di autori francesi di riferimento del pensiero politico, soprattutto Jacques Maritain. Il direttore dell’ufficio della pastorale sociale della Cei, don Bruno Bignami, ha scritto un testo, pubblicato alla vigilia dell’evento triestino, intitolato “Dare un’anima alla politica” che pone come esempi da seguire 5 testimoni di quella scuola di politica di grande autonomia dei laici: Tina Anselmi, Maria Eletta Martini, Giuseppe Dossetti, Giorgio La Pira e David Sassoli.

Uno dei padri della comunità europea è stato Robert Schuman, esponente del Movimento repubblicano popolare, partito politico di ispirazione cristiana nato nel 1944, ma rimasto in vita solo fino al 1967.

Maritain, da neoconvertito aderì prima all’integralismo dell’Action francaise, per poi contrastarlo decisamente contribuendo alla maturazione di un nuovo rapporto tra Chiesa e mondo moderno emersa con il Concilio Vaticano II.

La secolarizzazione in Francia si è affermata assieme a una crescente polarizzazione che ha finito per dividere anche i cattolici, diventati man mano una minoranza numerica. Un destino che sembra segnato anche per l’Italia nonostante le evidenti differenze storiche e culturali del nostro Paese permeato dalla presenza della Santa Sede.

Anche se i numeri della comunità islamica non sono così significativi come Oltralpe, dove è concentrata nelle immense e anonime periferie, il timore dell’invasione e della “sostituzione etnica”, esplicitato anche da alcuni nostri ministri in carica, è un fattore di peso nella raccolta di consenso elettorale. Prima della nomina alla presidenza della Cei, rispondendo a Città Nuova, sull’attualità della convinzione del cardinal Giacomo Biffi di dover selezionare e favorire l’accoglienza dei migranti di religione cristiana, il cardinal Matteo Zuppi ci ha risposto che la vera domanda da porsi oggi è quella sull’esistenza o meno di fedeli autentici del Vangelo. E si può dire che la Chiesa bolognese rappresenta, con l’esempio di don Matteo, come viene chiamato da tutti, un segno di inculturazione e dialogo capace di andare oltre asfissianti recinti.

È emblematico, tuttavia, che proprio dalle pagine di Avvenire, il quotidiano controllato dalla Cei, sia partito un dibattito sulla debole o nulla incisività dei cattolici nella cultura italiana a partire da un’impietosa analisi del teologo Pierangelo Sequeri: «Molta morale, poca comunità, zero cultura» è la sintesi fatta da Roberto Righetto, seguita da numerosi interventi molto colti e complessi.

Per avere un’idea del recente passato in materia di progetto culturale, e incidenza politica della Chiesa cattolica in Italia, è utile leggere una lunga intervista fatta dal Corsera a Camillo Ruini, presidente della Cei per un lunghissimo periodo che va dal 1991 al 2007, soprattutto per segnare le differenze attuali di impostazione e di azione.

Ma ciò che viene catalogato nella dizione larga di “mondo cattolico” è ed è stato molto più variegato di quella rappresentazione espressa da Ruini e dimostra una vivacità che neanche la manifestazione delle Settimane sociali in programma a Trieste dal 3 al 7 luglio riesce a contenere nonostante la ricchezza del programma che non si svolgerà interamente, come le precedenti edizioni, solo a porte chiuse, cioè ad accesso riservato ai delegati di diocesi, associazioni e movimenti.

Come ribadito da Elena Granata nell’intervista a Città Nuova, al termine dei lavori degli oltre 900 delegati non partirà, questa volta, un documento preconfezionato dagli esperti, come sono inevitabilmente tutti quelli che vengono lanciati alla fine di ogni evento.

Ma cosa ne uscirà di concreto? È una bella sfida perché la scelta compiuta mira a superare la produzione di documenti che costituiscono un vero e proprio genere letterario perché impeccabili, di un alto livello culturale in grado di coniare termini evocativi, ma destinati a restare sul piano generale, mentre gli stessi territori dove si svolgono le Settimane sociali esprimono dei nodi che vanno affrontati direttamente.

Quella di Cagliari del 2017, ad esempio, dedicata a lavoro, non si è espressa sul caso di una vicina fabbrica di bombe di una multinazionale germanica che gode ora del riarmo generale e continua ad esercitare un forte ricatto occupazionale tra guerra e vita, ma è stata l’occasione per tessere rapporti tra associazioni e Chiese locali per sostenere il blocco dell’invio di armi e percorsi di riconversione economica, anche in collaborazione con la Federazione della chiesa evangelica.

Nel 2021 a Taranto, dove l’ex Ilva continua ad inquinare, si è affrontata la grande questione dell’ambiente, sotto l’immagine di san Francesco, dando parola alla pediatra che denuncia l’aggressione alla salute dei bambini del rione Tamburi ma anche al rappresentante di Federacciai che ha confermato la necessità di una produzione industriale in mano ad una multinazionale che non si è vista durante i lavori della settimana sociale ma che, nel frattempo, si è dileguata lasciando i problemi irrisolti.

L’affascinante città di Trieste è il luogo di approdo della Rotta balcanica dei migranti, con esperienze di grande umanità nell’ accoglienza, in un contesto segnato, tuttavia, dal Patto europeo sui migranti richiedenti asilo e rifugiati definito ad aprile 2024 e giudicato «il fallimento della solidarietà europea» da parte del vescovo Giancarlo Perego, presidente della Commissione episcopale per le migrazioni e della Fondazione Migrantes della Cei. Alcuni migranti sono stati sloggiati da un’occupazione precaria a Trieste prima dell’inizio della Settimana sociale. Ma il problema è destinato a rimanere aperto.

Il centro culturale Veritas promosso a Trieste dai gesuiti aveva organizzato un incontro il 26 maggio sulla questione “Pace, guerra e porto franco. Trieste nella guerra mondiale a pezzi” per affrontare la questione del destino del porto della città che è il vero nodo strategico di tutta l’area, in bilico tra diventare uno snodo del traffico militare oppure continuare a svolgere una funzione di ponte con il centro dell’Europa dove è finora è stato destinato il 90% delle merci in transito.  Passa da Trieste, ad esempio, il petrolio che copre l’intero fabbisogno del Sud della Germania e della Repubblica ceca oltre al  90% dell’Austria. È qui uno degli snodi decisivi della “Nuova Via della Seta”, promossa dalla Cina ma osteggiata dagli Usa.

L’incontro di maggio, poi, è stato spostato ad altra data ma è possibile ascoltare sul sito del centro Veritas l’interessante intervento preregistrato di Zeno D’Agostino, presidente Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Orientale.

Sull’intera questione del porto esistono studi approfonditi di Paolo Deganutti, titolare di una antica libreria in città. Un volto della ricchezza culturale della città che è tutta da scoprire. Deganutti è autore di alcuni saggi pubblicati da Limes e da ultimo ha pubblicato “2027 – la guerra per il porto franco di Trieste”, un libro che ipotizza un futuro da scongiurare come esito delle tensioni latenti tra potenze grandi e medie, si pensi al peso crescente della Turchia, che si possono scaricare sul confine orientale del nostro Paese.

Poco distante da Trieste si trova, infatti, la base area di Aviano da cui sono partiti i caccia della coalizione occidentale durante la guerra dell’ex Jugoslavia degli anni 90. Quell’aeroporto ospita decine di bombe nucleari che una cinquantina di associazioni cattoliche ha chiesto di rimuovere dal territorio nazionale aderendo alla campagna “Italia ripensaci” di messa al bando delle armi nucleari.

Come ha scritto Deganutti, «la caratteristica unica di Trieste, derivante da un trattato internazionale di pace (del 1947,ndr), di Porto Franco aperto a tutti i Paesi senza alcuna discriminazione o esclusione, è alla base della generale opinione favorevole alla mediazione e alla risoluzione diplomatica dei conflitti in corso e contraria all’estremizzazione delle contrapposizioni tra stati, a sanzioni e traffici di armi (cui si sono opposti concretamente i lavoratori portuali)».

La via per essere credibili e incidere sulla cultura, e quindi sulla politica come azione per il bene comune, passa probabilmente dal principio di realtà, dal rispondere cioè alle questioni decisive dell’umanità nel “crinale apocalittico” della storia indicato dal realismo profetico di Giorgio La Pira.

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