Trevisi, vescovo di Trieste: Siamo diversi ma siamo fratelli
Monsignore Enrico Trevisi nasce ad Asola il 5 agosto 1963, un comune italiano nella provincia di Mantova, in Lombardia. Dopo l’ordinazione sacerdotale consegue il dottorato in teologia morale presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma e ricopre diversi incarichi da docente.
Da sacerdote della diocesi di Cremona a vescovo della diocesi di San giusto a Trieste. Un grande cambiamento. Se lo aspettava? Come sta vivendo l’inizio di questo nuovo cammino?
Per prima cosa non mi aspettavo di diventare vescovo, tantomeno a Trieste, città dove non ero mai stato. Come sta andando adesso? Certamente ci sono tante novità, molte cose sono differenti. Siamo in una periferia geografica lungo un confine che è punto di incontro, non soltanto di divisione, di popoli abituati a volte a contendersi la terra, altre volte a convivere pacificamente, con delle ferite che talvolta sono ancora molto doloranti. È subito evidente come Trieste sia una città che ha dei tratti cosmopoliti, nonostante non sia una metropoli. Storicamente, in particolare da quando è diventata un Porto Franco (la rese tale l’imperatore austriaco Carlo VI nel 1719), si è instaurato un grande scambio di etnie. Questo comporta che già da tanto si è abituati a confrontarsi con chi è differente e proviene da altri luoghi, professa altre religioni, si esprime con un’altra cultura.
Nel confronto tra realtà diverse ci può essere della fatica. Il rischio di irrigidirsi sulla propria identità nella paura di perderla, per cui diciamo che c’è sempre il risvolto della medaglia. Però siamo fratelli, l’uno diverso dall’altro, ma restiamo fratelli. E la fraternità da un lato è un compito, non è semplicemente un dato di fatto. Può essere una risposta per molte situazioni ma serve una certa abilità per mantenerla e dipende sempre da noi il modo in cui la viviamo.
Quali sono le differenze principali tra l’essere sacerdote e l’essere vescovo? Quali sono quelle che fa più difficoltà ad affrontare?
Certamente sono responsabilità diverse. Prima la responsabilità era su un gruppo più ristretto. Sono stato anche educatore in seminario, per cui avevo cura dei giovani che si preparavano a diventare preti. Poi sono diventato parroco, quindi guida spirituale di quella porzione variegata del popolo di Dio che era la mia parrocchia.
Adesso la responsabilità è su tanti preti, case religiose e su tutto il popolo di Dio. Nonostante a me piacesse molto, da parroco, girare per le case e incontrare le persone, sento adesso invece la necessità di stare fermo e ascoltare preti, laici, associazioni e movimenti. Però ecco, devo dirlo, l’esperienza di essere stato parroco mi porta, come vescovo, ad andare incontro alla gente, cercando di costruire relazioni e di pormi in ascolto. Invoco l’aiuto del Signore e le preghiere di tutti. Mi viene da fare la battuta quando incontro le persone: «Mi raccomando, ricordatevi di pregare per il papa, che ne ha bisogno, ma anche per il vostro vescovo».
Nella lettera che ha indirizzato alla diocesi di Trieste dopo la sua nomina, scrive: «Il vivo desiderio che anche i giovani siano protagonisti delle nostre comunità». Cosa intende per protagonisti e qual è la sua idea di giovani attivi nella comunità?
Io vorrei anzitutto che tutti fossero protagonisti della diocesi. Per cui certamente i giovani, che non sono semplicemente i destinatari di una cura pastorale, utenti di servizi religiosi; invece, sono protagonisti della vita cristiana, ognuno certo secondo il proprio carisma e anche secondo ciò che più profondamente caratterizza la stagione di vita che attraversa. Dai giovani mi aspetto che portino anche la loro carica di gioia. Il papa alla Gmg (la Giornata mondiale dei giovani), che ha avuto luogo quest’anno a Lisbona, ha dato questo mandato: essere missionari della gioia vera, quella che viene dal Signore e dal Vangelo. Vorrei anche che portassero il desiderio di sperimentare e provare.
Ecco, mi piacerebbe che sperimentassero e provassero un “essere della Chiesa”, ma con tutte le loro istanze. Faccio un piccolo esempio: i giovani fino a questa pandemia, che invece ha fatto rinchiudere un po’ tutti su sé stessi, sono stati per definizione quelli che escono di casa con il desiderio di instaurare relazioni. Io spero che la Chiesa diventi lo spazio dove, chiusa l’amarezza del tempo della pandemia, si possa uscire, incontrarsi e costruire relazioni di qualità.
Che prospettive ha per il futuro di Trieste? Su quali iniziative e progetti imminenti sta lavorando?
Trieste è una città dove vivo da poco più di 5 mesi, ma dove il Signore lavora da tempo. Ci sono tante persone che cercano di rispondere, a volte con stanchezza, a volte con entusiasmo, alla sua chiamata. Il mio progetto è quello di camminare con questa comunità e di vivere il Vangelo. Questa terra è stata scelta come sede della settimana sociale dei cattolici in Italia, sarà la 50a edizione nel prossimo luglio 2024. Ora siamo presi dai cantieri sinodali, dal cammino sinodale per cercare delle linee pastorali che lavoriamo insieme. Vuol dire uno stile di ascolto, di approfondimento, anche un po’ di ricerca, le modalità che corrispondono a quello che lo Spirito Santo ci suggerisce oggi. Uno dei cantieri sarà questo giovanile, interconnesso con quello vocazionale, perché ogni giovane possa sentirsi davvero protagonista della vita e della Chiesa.
Un altro cantiere invece lo faremo in modo particolare con le persone anziane. Passiamo a un’altra stagione della vita; anche Trieste è una città dove l’inverno demografico si sta facendo sentire. Il desiderio è che gli anziani pensionati non siano solo destinatari di una qualche iniziativa pastorale, ma che siano invece anche loro protagonisti della loro fede e della Chiesa. Un altro cantiere che faremo riguarda un tema che attraversa tante famiglie ferite, fragili. Ci interrogheremo, dopo Amoris laetizia (esortazione apostolica sull’amore nella famiglia), su come riuscire ad accompagnare i congiunti che si trovano in una situazione di separazione, divorzio o nuova unione.
Faremo un altro cantiere un po’ originale, però molto sentito dai fedeli triestini. Trieste ha una particolarità. Quando una persona muore, anche in ospedale, le camere ardenti sono al cimitero, dove vengono fatti anche la quasi totalità dei funerali. Dunque, non avvengono in parrocchia, il contesto dove i nuclei famigliari vivono, sono conosciute e hanno le loro relazioni. C’è la voglia di riappropriarci dei rapporti con le famiglie che vivono il lutto. Con altre parole, il desiderio di riuscire ad annunciare ancora il mistero pasquale della morte e risurrezione, perché il rischio è quello di essere soltanto dei ministri di un servizio religioso da espletare in pochi minuti.
Ci sarà poi un rilancio dei cantieri dentro i consigli pastorali, da quello diocesano a quelli parrocchiali, affinché le nuove prospettive non siano delle linee calate dall’alto, ma invece siano una rielaborazione che cerchiamo insieme, fiduciosi dello Spirito Santo che ci parla ancora.
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