Trento chiama Uganda
L’associazione Acav festeggia 25 anni di cooperazione con l’Africa.Non solo progetti di sviluppo ma intervenire valorizzando la relazione con il territorio e con i suoi abitanti.
Elisabetta Bozzarelli è presidente di Acav, l’Associazione Centro Aiuti Volontari, un’ organizzazione non governativa trentina che da 25 anni opera in Africa, soprattutto in quei paesi dove i conflitti continuano a mietere vittime e distruzione. Le abbiamo chiesto di raccontarci il segreto di questa longevità.
«Faccio una premessa. Nella società trentina C’è già una tradizione di associazionismo vivo, cooperative, di aiuti concreti ai paesi in difficoltà e molti sono i missionari originari di Trento che operano in queste zone di frontiera. Ad un certo momento si è sentita l’urgenza di offrire proprio a questi missionari la possibilità di estendere la loro operatività e di essere più efficaci sul territorio. Da qui l’idea di Acav : un centro laico che avrebbe potuto lavorare su progetti, scriverli concretamente e organizzare gli aiuti in modo sistematico e sistematizzato».
Perché l’Africa?
«Sudan, Congo, Uganda qunado abbiamo cominciato erano paesi in guerra dove il bisogno di aiuto era estremo. Ora ci siamo concentrati in Uganda perché ce l’ha chiesto espressamente il Ministero degli esteri, che aveva necessità di una presenza costante e riconosciuta e poi in questo paese la sicurezza delle nostre attività è maggiormente garantita».
Come operate concretamente?
«I conflitti tribali che hanno coinvolto questi tre Paesi, hanno dato in mano ai bambini le armi, diseducandoli ad un futuro e lo stesso con i profughi, che tornati nelle loro terre hanno disimparato la coltivazione e i ritmi della natura. In questi posti mancano poi i servizi di base, gli ospedali sono a pezzi e le scuole quasi inesistenti. Noi abbiamo perforato dei pozzi, impiantato trivelle, costruiamo servizi igienici per scuole, mercati e villaggi. Investiamo sulla formazione agricola e scolastica».
E’ sempre la logica del Nord che assiste il Sud…
«Assolutamente no. Dietro la nostra azione c’è un ripensamento del fare cooperazione: non assistenzialismo ma lavoro con la comunità e con gli operatori locali. La cooperazione prima che aiuto è relazione, rapporto, solo così può nascere uno sviluppo integrale, dove gli interventi sono programmati con le autorità e le associazioni locali. Quindi sono progetti che non finiscono nel tempo. È più difficile, ma è duraturo».
Un esempio?
«Un progetto di successo è quello del microcredito. Non c’è solo un prestito, ma un’educazione al credito e quindi il capitale si usa per diversificare agricoltura e allevamenti , ciò implica che ben 35 gruppi lavorassero insieme, abbiamo dato un impronta comunitaria per lavorare meglio, e quindi anche se diverse sono le etnie, la contabilità e microcredito sono unici».
E i prestiti sono restituiti?
«Noi non chiediamo di farlo, ma invitiamo ad investirli per migliorare la loro condizione, per pagare le tasse per la scuola dei figli. Spieghiamo che l’immediato non è l’utile, noi vogliamo che investano su un futuro di vita. E abbiamo visto che ha funzionato. Quando le relazioni si trasferiscono nel meccanismo infernale del mercato, si può dare una svolta reale, ma bisogna farlo con animatori locali. Ad esempio una volta volevamo investire su un allevamento di maiali, un allevatore del posto ci ha sconsigliato perché la popolazione era in gran parte musulmana e quindi era meglio capri e ovini».
Ma ci sono i fallimenti?
«Si fallisce quando non si riescono a creare imprese locali. L’economia di questi Paesi è in mano ad aziende straniere che quindi proprio perché portano ricchezza incidono e condizionano la politica e la società. Noi puntiamo ad imprenditori locali».
Ci sono polemiche sulle ong e sulla gestione dei fondi che ricevono. Cosa rispondete?
« Spesso le ong investono molto nelle strutture e negli uffici per auto sostenersi. Ecco noi abbiamo scelto di ridimensionarci nella gestione e quindi avere una corretta operatività. Noi abbiamo un solo ufficio in Italia e uno in Uganda equi non ci sono italiani ma risorse umane locali, il capo progetto è ugandese. Se dapprima i geologi che esaminavano i pozzi erano italiani, ora sono affidati totalmente ad africani. Adesso la finanziaria ha tagliato il 30% dei finanziamenti alle ong e si interviene solo sulle emergenze e quindi per noi sarà più difficile perché agisci sul momento ma non costruisci con le persone per un futuro».
Una domanda personale. Atterrata per la prima volta in Uganda, che impressione si è fatta?
«Sono sta lì nel luglio del 2007 e ho scoperto una società molto diversa dalla nostra per colori, odori, per lo spirito di condivisione tra tutte queste persone, anche se è difficile relazionarsi nella parità, sei sempre uno straniero. Una cosa che mi ha colpito è la felicità di queste persone che non tanto, ma non hanno la depressione, come nelle nostre città: sanno essere felici con poco e i bambini sorridono con un pallone di pezza. Ho capito lì, che il nostro paradigma di sviluppo non è esportabile, bisogna ripensare il nostro standard di vita : questa gente è un campanello che deve suonare nelle nostre coscienze per ricordarci cosa più vale».