Trent’anni in una stanza

«Non era matta; erano stati piuttosto i familiari, così chiusi ed introversi, ad averle creato dei problemi...». Il lungo ritorno alla vita di Marina
porta

«Non parlatemi di Marina, quella matta, se no vi pianto qui e me ne vado!», era scattato Raffaele, rabbuiandosi di colpo. A suo cugino Arturo voleva un bene dell'anima, ricambiato; ma guai a chiedergli notizie di quella sorella che viveva segregata nella sua stanza.

 

Da trent'anni, dall'epoca cioè della sua malattia, Arturo era riuscito a vederla soltanto una volta. E pensare che prima si frequentavano assiduamente. Lui e sua moglie Rosa la ricordavano come una ragazza piena di vita, intelligente, colta, che amava il suo lavoro di maestra d'asilo. Poi, d'improvviso, aveva cominciato a soffrire di mania di persecuzione. Si sentiva spiata dagli inquilini del palazzo di fronte, asseriva che in camera sua c'erano microfoni nascosti. Così si era progressivamente chiusa in se stessa e aveva staccato i contatti con chiunque non fosse la madre. Abitavano lo stesso appartamento anche tre suoi fratelli, il più anziano dei quali era appunto quel Raffaele che si agitava tanto appena si accennava alla sorella. Se lui che era il più malleabile e da cui ci si poteva aspettare più comprensione reagiva così, figurarsi gli altri. Di tanto in tanto Arturo andava a trovare zia Marta, sperando di vedere anche la cugina. E lei ostinata a star rinchiusa in quella stanza con annesso un piccolo bagno, che pareva diventata la sua tomba. Non serviva parlarle attraverso la porta, cercare di convincerla ad aprire.

 

Per la verità, l'intera famiglia era un po' particolare. Quei fratelli, ad esempio: facevano ognuno vita a sé, col proprio televisore personale in stanza. Se ad uno chiedevi notizie dell'altro, si stringeva nelle spalle e rispondeva di non sapere niente. E prendevano per cattiveria le bizzarrie della sorella, che talvolta maltrattavano, purtroppo, non soltanto a parole. Matta però Marina non era, a dire di un amico psichiatra di Arturo: erano stati piuttosto i familiari, così chiusi e introversi, ad averle creato dei problemi. Sarebbe stata necessaria una terapia di gruppo, ma come farla accettare a dei tipi così?

Zia Marta, poi, buona come il pane; ma, un po' per l'età e un po' perché eccessivamente sprovveduta, non riusciva a immaginare per sua figlia una soluzione diversa da quel sacrificarsi continuo per lei. Un amore che scoraggiava ogni intervento, diventando una barriera per chi dall'esterno avrebbe voluto o potuto cercare un rimedio.

 

Solo una cugina medico era riuscita una volta a visitare Marina. Lei però non aveva mai preso sul serio le cure prescritte, nella convinzione di non essere malata. Per la verità, pur dormendo sulla nuda rete del letto e con la finestra spalancata ad ogni stagione, nutrendosi appena e in condizioni igieniche più che precarie, non aveva mai risentito di nulla. Quasi un fatto miracoloso. Poi un tentativo – infruttuoso anche questo – di far intervenire il Centro di igiene mentale. Infatti, di fronte all'ostinazione dì Marina, barricata nella sua stanza, il medico inviato dal Centro non aveva creduto opportuno insistere: sarebbe ritornato – così aveva annunciato – quando lei sarebbe stata "più disponibile". Nessuno più l'aveva rivisto. Da allora era subentrata nella parentela la rassegnazione, come di fronte a un fatto ineluttabile. Rassegnati però, Arturo e sua moglie, non volevano essere, e cercavano di mantenersi pronti ad ogni evento.

 

Zia Marta, ormai ultraottantenne, si stava lentamente spegnendo. Sospirava e piangeva pensando alla figlia: «Io sto per andarmene e lei rimane a carico dei fratelli. Come farà senza di me?». Con la sua morte, in effetti, dì lì a poco, veniva meno l'unica persona che, bene o male, aveva garantito un certo sostegno a Marina. Arturo e Rosa si chiedevano cosa poter fare per lei, affidata a fratelli che in fondo non la capivano. Urgeva trovare un rimedio a quella situazione, cercando di coinvolgere anche quei parenti che non pensavano d'intervenire o per scarsa sensibilità o perché sfiduciati dopo anni di tentativi vani. Così con Olga, sorella di Marina, ricontattarono il Centro d'igiene mentale interpellato una ventina di anni prima.

 

E davvero tutto ricominciò: specie dopo che anche le resistenze degli altri fratelli, a poco a poco, vennero meno. Convocati dal Centro di igiene mentale, accettarono di incontrarsi ogni mese con l'équipe medica costituita da uno psichiatra, uno psicologo e un'assistente sociale. Ma restii com'erano ad aprirsi, preferivano che a tali appuntamenti ci fosse sempre Arturo, interlocutore fidato e capace di interpretare la situazione.

 

Dopo alcuni mesi, all'equipe sembrò giunto il momento di prendere contatto con Marina. Grande l'aspettativa da parte di tutti: come avrebbe reagito la donna? La prima volta andarono in due e – cosa incredibile – lei aprì, consentendo loro di rimanere per pochi minuti. Lo stesso si ripeté le volte successive. Quando Marina si rese conto che erano per lei quelle visite-lampo, per la prima volta dopo tempo immemorabile uscì dalla sua stanza e si intrattenne in salotto con i componenti dell'équipe. Fu il segnale di “via libera" perché anche la sorella ed altri parenti riprendessero a farle visita e ad occuparsi di lei.

 

Quella porta un tempo sempre sbarrata ha lasciato poi entrare anche Arturo. Marina era là, accoccolata sul suo letto, in una vestaglia sbrindellata e col capo avvolto in una specie di turbante. La fiorente ragazza che lui ricordava ora era una esile e patita creatura che aveva passato i sessanta.

«Mi riconosci? Sono Arturo». «Certo che ti riconosco… – s'è sentito rispondere nella maniera più normale –. Sei sempre lo stesso». «Ricordi le volte che venivi a mangiare da noi?». «Come no, Rosa mi faceva trovare la polenta… però mi deve ancora fare assaggiare i crauti». Cominciava a riallacciare il presente col passato, come se quei 30 anni di solitudine non fossero mai esistiti.

Guardandosi meglio attorno, Arturo notava tanti particolari che parlavano di sofferenza. Qua e là l'intonaco era letteralmente mangiato a forza di sfregare, di pulire (la cugina era maniaca dell'igiene, ma a modo suo). Abiti ammuffiti, qualche libro e altre cianfrusaglie erano ammonticchiati un po' dovunque.

 

Adesso invece è tutto pulito e in ordine, Marina ha consentito che Olga provvedesse a far sgombrare la stanza, non senza qualche resistenza: «Quando arriva lei (riferendosi alla sorella), porta lo scompiglio qui!», s'inquietava. E una volta l'ha messa anche alla porta, salvo poi chiederle scusa: anche questo indice di una normalità in via di recupero.

 

A poco a poco Marina ha ripreso a parlare, ad esprimersi come una persona della sua cultura. Poi ad accettare l'idea di considerare tutti quegli anni una lunga parentesi di malattia per la quale occorrevano anche delle cure. Si è resa conto inoltre di essere civilmente "inesistente", priva com’era di documenti e di assistenza sanitaria, come pure di pensione… E allora s'è lasciata accompagnare per farsi le fotografie, e poi al Comune per la richiesta della carta di identità. Perfino a firmare la domanda per la pensione, lei che aveva sempre avuto paura di mettere una firma.

Di tanto in tanto fa delle passeggiate in macchina, sempre in compagnia dell'assistente sociale o dell'infermiera, con le quali ormai è nato un rapporto di familiarità: ogni lunedì le accoglie in salotto, partecipa alla conversazione; quando se ne vanno, le accompagna alla porta, scambia con loro dei convenevoli come qualunque padrona di casa fa con i suoi ospiti.

 

Ora si alimenta normalmente, e ha ripreso pure a leggere delle riviste, dei libri. Un giorno in cui Rosa l'ha cercata al telefono, non solo s'è sentita rispondere (non lo faceva mai), ma ha colto da parte sua una gioia sincera nel risentirla dopo tanto tempo. I due coniugi le hanno promesso che prima o poi andranno a prenderla per invitarla a cena. «Ah, finalmente assaggerò i crauti!», ha esclamato contenta. Prima o poi, se le cose vanno avanti così, acconsentirà anche a fare una vacanza. Insomma, un recupero lento ma deciso.

 

I fratelli hanno cambiato un po' atteggiamento nei suoi confronti, e più di tutti Raffaele. Con lui è stato necessario tutto un lavoro di tessitura paziente, nei momenti di più forte tensione, per stimolarlo alla fiducia, alla comprensione. E un giorno, dopo una delle tante sedute con l'équipe medica, a cui era stato presente Arturo, Raffaele ha abbracciato forte il cugino.

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