Il trekking, un frate, una chiesa e la cultura del dare
Per Pasquetta, mi trovavo ad Alberese, nel parco della Maremma, in provincia di Grosseto dove, per tradizione, da oltre trent’anni, parrocchiani e turisti si arrampicano lungo le pendici dei Monti dell’Uccellina, fino a raggiungere San Rabano, già Santa Maria Alborense, un’antica abbazia d’origine benedettina, fondata tra XI e XII secolo. L’abbazia è abbandonata e diroccata, ma un sapiente restauro ne ha messo in luce l’imponente struttura originaria, con la torre, la chiesa e quel che si suppone fosse il chiostro, con le celle dei monaci.
Il cielo, grigio e minacciante pioggia, non era bastato a scoraggiare quel centinaio di persone che affrontava l’esperienza, a metà tra il pic-nic e il pellegrinaggio, con una buona dose di allegria e curiosità. La maggior parte dei bambini aveva preso via di corsa, e guidava la carovana. Poco più indietro, un gruppo di genitori che, per quanto il fiato glielo concedeva, vigilava sui figli a distanza. A chiudere quel popolo vario di camminanti, una compagnia di fedeli che saliva meditando su alcuni scritti di Santa Teresina del Bambin Gesù, guidata dal vescovo di Grosseto, Rodolfo. Tra loro, una ventina di parrocchiani, turisti, una suora, il carmelitano che conduceva le meditazioni e un gruppo di minori francescani. Anch’io salivo con loro, mentre dietro di noi, un grosso trattore con rimorchio, provvedeva al trasporto degli anziani e dei poco allenati. Il pellegrinaggio si svolgeva a tappe, così, in una delle piazzole di sosta, mentre aspettavamo che il carmelitano ci raggiungesse, mi ero ritrovata accanto a uno dei frati. Sarà stato per quell’aria di frizzante religiosità condivisa che si respirava, o forse, per il suo saio che, accostato alla macchia, evocava il ricordo romanzesco di quei monaci antichi che abitavano le colline… fatto sta che, ad un certo punto, avevo considerato ad alta voce: «Certo, sarebbe bello se il monastero lassù tornasse ad essere abitato. S’immagina che bellezza, arrivare ora, ed essere accolti da un gruppo di monaci?».
Il frate mi aveva guardato dall’alto in basso, come considerando con chi aveva a che fare, se con una turista sciroccata o se sciroccata e basta, e poi aveva risposto, secco e serio: «Sarebbe bello. Ma non è così e non lo sarà mai più. Perché è cambiata la cultura. Chi dà i mezzi ad un ordine religioso oggi, per ristrutturare un’abbazia in rovina? Ringraziamo che la Soprintendenza sia riuscita a fare un bel lavoro di restauro!».
Insisto: «Almeno un eremo…». Risponde lui: «Signora, le ripeto, è cambiata la cultura. Quello che rendeva fiorente un monastero, un tempo, erano le offerte dei fedeli. Si donava per il bene comune. Un monastero o un convento erano ritenuti “bene comune”. Oggi, i ricchi preferiscono comprarsi un SUV, la casa al mare e anche quella in montagna. Si tende ad accumulare per sé, non a donare per il bene della comunità».
L’arrivo del carmelitano aveva interrotto quel discorso e poi non c’eravamo più incrociati lungo il cammino. Tuttavia, qualcosa di quello che aveva detto mi aveva toccato sul vivo. Ma cosa? In fondo, lui aveva parlato di ricchi, l’accusa che aveva fatto non mi riguardava… Cambio scena.
È il 25 aprile, festa della Liberazione. Mio marito ed io decidiamo di festeggiarla percorrendo un sentiero del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, sconfinando nel comune di Bagno di Romagna. Stavolta c’è il sole. Il cammino, tutto in discesa, dopo pochi chilometri diventa una specie di mulattiera ripida, immersa nel bosco. La primavera qui è in ritardo, l’erba è ancora bruciata, segno della recente presenza di neve. L’idea è quella di raggiungere la località di Pietrapazza, che si trova a circa 616 metri sul livello del mare. Scendiamo nella valle del fiume Bidente, selvaggia e disabitata, dove il bosco è interrotto solo da brulle pareti rocciose.
Dopo circa un’ora di cammino, raggiungiamo il fondovalle, dove ci aspetta una sorpresa: un grazioso ponticello in pietra attraversa il torrente, e porta ad un pianoro di margherite su cui sorgono una chiesa in pietra e una casa. Seduto al sole, davanti a quella che forse era stata la canonica, un giovane frate accenna un saluto e continua a snocciolare il suo Rosario. Arrivano anche due ciclisti. Presa da meraviglia per quel luogo da fiaba, comincio l’esplorazione. Qua e là, dalle alture, confusi con il fogliame del bosco, si indovinano tetti di poderi diroccati. La porta della chiesa è aperta, e così, entriamo a visitarla. L’interno è bianco, poche decorazioni, con un’unica navata. Sulla parete di sinistra, un altarino ricorda la storia della fondazione di quella chiesa, dedicata a Sant’Eufemia: «Don Domenico Zanchini, dal popolo di Pietrapazza, fu accolto molto favorevolmente. La chiesa però era in pessime condizioni. Non era garantita l’incolumità dei fedeli. Il soffitto era talmente basso che, per evitare che si bruciassero le travi, vennero tagliati i ceri. Don Domenico, desiderava costruire una nuova chiesa. Giuseppe Milanesi lo rassicurò che il popolo di Pietrapazza avrebbe prestato aiuto gratuito per la preparazione delle pietre. Queste furono prese dal fosso delle Graticce. Le lastre per il tetto furono prese dalla zona della casaccia e di Ridolmo. […] Nel 1938 i monaci camaldolesi e il popolo fecero offerte per le campane e gli arredi sacri. Il 2 luglio 1938 il vescovo di S. Sepolcro, Pompeo Gnezzi, consacrò la chiesa a S. Eufemia. Per far fronte alle ultime spese, don Domenico, dovette vendere il suo cavallo».
La foto del sacerdote sul suo cavallo completava il racconto su di un cartoncino. Di colpo, quel disagio che mi aveva colto in Maremma, si scioglieva in Casentino. Aveva ragione il frate minore. Era cambiata la cultura. Però, a quei tempi, non erano solo i ricchi a donare. Lo facevano tutti, anche i poveri, che attingevano al loro necessario.
Quella che oggi chiamiamo “cultura del dare” era cultura diffusa. Tutti si impegnavano per il bene comune. Così era successo in quella vallata sperduta, selvaggia e apparentemente inospitale. Gli abitanti, che vivevano di allevamento, di un po’ di agricoltura, del taglio del legname e della lavorazione della pietra, insomma, arrangiandosi, avevano dato non solo i loro talenti, ma anche i loro risparmi per costruire quell’edificio per il bene della comunità. Non solo il superfluo, ma anche il necessario, come il cavallo per quel prete, che ne aveva bisogno per raggiungere i suoi duecento parrocchiani dispersi nella valle. Le affermazioni del frate là in Maremma, riguardavano anche me, che non sono ricca, ma quando dono, dono briciole di superfluo. È vero, è cambiata la mentalità. Bisogna esserne consapevoli. Di recente, poi, si assiste anche ad una deriva, ad un rovesciamento di valori, per cui chi dona è guardato con sospetto. Come se non fosse più concepibile, nell’essere umano, la gratuità, ma solo l’agire per il proprio tornaconto, per guadagnarci in qualche modo. Ben vengano certi cammini, ancora fertili generatori di conversioni, che ci riconducono alle radici della nostra cultura e rafforzano il nostro passo, per camminare, oggi più decisamente, contro corrente.