Tregua di Natale, appello che scava nelle coscienze
«Se non ci sarà la tregua di Natale, sarà una sconfitta del cristianesimo, dopo cui non ci si potrà voltare dall’altra parte, lamentandosi dell’irrilevanza e la distrazione delle genti». Non usa mezze parole Andrea Riccardi nel rilanciare l’appello di papa Francesco a far tacere le armi nel periodo di questo Natale 2022.
Un grido destinato a restare inascoltato come fu quello di Benedetto XV nel 1914. O meglio, l’appello fu rifiutato dai “capi delle nazioni” al quale era rivolto l’appello dal Vaticano, mentre sul fronte nelle Fiandre narrano le cronache che almeno 100 mila soldati (tra la truppa inglese, tedesca e in parte francese) diedero vita ad una tregua spontanea che fu bollata e punita dai comandi militari come una inaccettabile espressione di fraternizzazione con il nemico.
Ne parlò per prima la stampa statunitense, ma il fatto fu poi riportato, con tanto di foto in prima pagina, su alcuni quotidiani britannici. Solo pochi accenni sui giornali italiani dell’epoca nonostante lo scontro in corso tra neutralisti e interventisti circa l’entrata del nostro Paese in quel conflitto destinato a diventare il primo ad essere definito mondiale e a rivelarsi come un orrendo mattatoio.
Oggi, secondo il fondatore della comunità di sant’Egidio, e storico autorevole del Novecento, «la tregua va comunque proposta pubblicamente con decisione: che ciascuno si prenda la responsabilità di accettarla o meno».
Una tregua è sempre insidiosa politicamente, perché si presta ad essere usata tatticamente dalle parti per armarsi meglio.
Alla vigilia imminente del 25 dicembre, il congresso Usa ha accolto trionfalmente il presidente ucraino sancendo l’invio di nuovi aiuti militari per 20 miliardi di dollari, con l’eccezione dei missili in grado di colpire il territorio russo, mentre Putin ha annunciato un massiccio piano di riarmo e la mobilitazione di nuove truppe con un milione e mezzo di coscritti.
Come ha affermato il ministro della Difesa, Guido Crosetto, proprio «coloro che la guerra l’hanno vista da vicino, le donne e gli uomini delle Forze armate, la odiano, la disprezzano più di ogni altro». Lo ha detto nel discorso alle Camere del 13 dicembre per dare ragione dell’impegno dell’Italia a concorre, con gli Usa e altri Paesi, alla fornitura di armi all’Ucraina, elenco secretato e noto solo al Copasir, nella convinzione che sia questa la strada necessaria per arrivare ad un cessate il fuoco.
All’Italia e agli altri stati fondatori della comunità europea è richiesto, invece, secondo le istanze della manifestazione per la pace del 5 novembre, che ha visto tra i promotori anche Riccardi, di essere promotori di un negoziato credibile in grado di far rivivere quello “spirito di Helsinki” del 1975 richiamato più volte dal cardinal Pietro Parolin, l’ultima volta il 13 dicembre in un incontro svoltosi nell’ambasciata italiana presso la Santa Sede.
Il riferimento è a quel trattato per la cooperazione e la sicurezza in Europa promosso nel pieno della “guerra fredda” e dei blocchi contrapposti, grazie anche all’azione dell’allora ministro degli Esteri italiano, Aldo Moro. «Impegniamoci tutti – ha detto Parolin – a scrivere una pagina nuova della storia d’Europa e del mondo, per porre fine alla barbarie fratricida in corso in Ucraina. Impegniamoci tutti a costruire un nuovo sistema di relazioni internazionali nel quale non siano solo i potenti, o i prepotenti, a prendere le decisioni». Per il segretario di Stato vaticano è urgente sostenere «quei leader che continuano a credere nella pace anche quando tutto sembra oscurarsi ed essere inghiottito dal demone satanico della guerra».
Parolin ha posto direttamente la questione con alcune domande dirette: «Perché non lavorare insieme per realizzare una nuova grande conferenza europea dedicata alla pace? Possiamo domandarci: l’Europa crede ancora nelle regole che essa stessa si è data dopo la seconda guerra mondiale grazie alla lungimiranza dei suoi Padri fondatori?». E il cardinale suggerisce, come avvenuto nel 1975, «un maggiore coinvolgimento, organizzato e preordinato, della società civile europea, dei movimenti per la pace, delle think-tank e delle organizzazioni che a tutti i livelli operano per educare alla pace e al dialogo».
Si può cogliere in questa direzione l’impegno di alcune realtà come il movimento per la pace e pax Christi, e rilanciato dal quotidiano Avvenire, di sostenere gli obiettori di coscienza alla guerra, sia russi che ucraini. Mao Valpiana li definisce «patrioti disarmati che non vogliono odiare la patria altrui».
Ad oltre 100 anni dall’appello alla tregua di Natale del 1914 si ripropone il fatto che a rispondere al richiamo della coscienza non siano i capi delle nazioni ma le singole persone che decidono di far cessare le armi esponendosi alle ferree sanzioni della legge marziale.
Risale al 1949 la prima proposta di legge sull’obiezione di coscienza presentata dai deputati Igino Giordani e Umberto Calosso che si fermò in commissione Difesa. Sappiamo che l’iniziativa trovava la sua radice, in Giordani, nel conflitto di coscienza vissuto durante la prima guerra mondiale. La legge sull’obiezione di coscienza al servizio militare è arrivata poi nel 1972 permettendo il servizio civile alternativo.
La sospensione avvenuta nel 2004 del servizio militare obbligatorio, sostituito dalla ferma volontaria, ha fatto venir meno il dilemma e la questione di coscienza nelle nuove generazioni che vedono come remota la possibilità di una chiamata alle armi. Ipotesi avanzata invece da alcuni esperti di difesa come Gianandrea Gaiani che la vedono necessaria in caso di coinvolgimento diretto in un conflitto come quello in corso nel cuore dell’Europa.
Ma l’obiezione alla guerra e alla sua logica riguarda tutti. Soprattutto chi le armi già le ha in mano e può decidere se spingere o meno il grilletto o, più modernamente, il comando del drone kamikaze. Riguarda ognuno per la parte che può essere chiamato a svolgere. “Ricordatevi della vostra umanità” è la frase ricorrente del discorso dello scienziato Joseph Rotblat, Nobel per la Pace nel 1985, che rifiutò di collaborare al progetto Manhattan che condusse alla costruzione della bomba nucleare, invitando i suoi colleghi a fare lo stesso.
Oggi il rischio nucleare viene ormai citato come possibile anche se rimosso nel dibattito pubblico. Come afferma Parolin, «di fronte alle immagini che ogni giorno ormai dal 24 febbraio scorso ci vengono proposte, c’è il rischio dell’assuefazione».
La richiesta di una tregua può aprire orizzonti più vasti di un’interruzione temporanea delle ostilità, come fa notare il fisico nucleare dell’università di Padova, Alessandro Pascolini, citando il De iure belli ac pacis del 1625 del grande umanista Grozio sull’analisi razionale delle tregue.
Invocarla, come non si stanca di fare il papa, è di sicuro scomodo per chi teorizza la mancanza di prospettive di pace e la necessità dell’escalation senza controllo nell’era nucleare.
Della tregua nata nel fango delle trincee, ci restano tante testimonianze che ci parlano oggi. Così scrisse in una lettera alla moglie il soldato Louis Barths, morto poi sul fronte nel 1917: «Forse un giorno in quest’angolo d’Artois, sarà innalzato un monumento per commemorare lo spirito di fraternità tra degli uomini vessati dall’orrore della guerra e costretti a uccidersi a vicenda, contro la loro volontà».
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