Tre volte vittime

Meno risorse per la lotta alla prostituzione, limitazioni al numero verde antitratta.
Prostitute

«Questo fenomeno, più che essere considerato un problema femminile, dovrebbe essere affrontato come un serio problema maschile». Originale come approccio al fenomeno della prostituzione quello di suor Eugenia Bonetti, missionaria della Consolata, da diversi anni in prima fila nel campo delle vittime della tratta. In effetti basta dare un’occhiata a qualche dato per rendersi conto della cifra del fenomeno. Tra i clienti, persone tra i 18 e i 65 anni, di tutti i ceti e condizioni sociali, il 70 per cento è costituito da uomini sposati o conviventi.

Non a caso si parla di vittime della tratta perché le donne e le ragazze, spesso giovanissime, che battono i marciapiedi delle nostre città non possono che essere definite tali: degli aguzzini che le hanno ingannate e costrette a vendersi e poi degli uomini che alimentano questo mercato dell’orrore. E rischiano di essere vittime di un terzo “colpevole”: l’azzeramento dei fondi che il nostro Paese riserva alla lotta contro lo sfruttamento della prostituzione.

È di quest’estate l’ultima novità in tal senso: delle 14 postazioni locali del numero verde antitratta operanti nel nostro Paese ne è rimasta in piedi solo una centrale, mentre sono stati notevolmente ridotti i fondi per i progetti di prima assistenza e per quelli di inclusione sociale. Ne parliamo con Marco Bufo, responsabile “Prostituzione e tratta” del Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (Cnca).

 

Quali sono le conseguenze della chiusura delle postazioni locali del numero verde antitratta?

«Questo provvedimento elimina uno dei punti fondamentali del sistema italiano di tutela delle vittime di tratta. Le postazioni locali assolvevano infatti a due compiti principali: l’offerta di una ricettività territoriale di 24 ore al giorno per le vittime di tratta, ma anche per le forze dell’ordine, per i sindacati, per le direzioni provinciali del lavoro che avevano da segnalare persone bisognose di un’accoglienza immediata. Ed anche una funzione di raccordo fondamentale fra queste persone e i progetti di assistenza, di protezione, di prima accoglienza e dei successivi percorsi di inclusione sociale esistenti sul territorio.

«Con una sola postazione centrale viene a mancare l’anello principale, quello dell’emersione delle vittime di tratta e di conseguenza si viene meno al dovere di tutelare queste persone; inoltre si riduce notevolmente l’azione di contrasto delle organizzazioni criminali che fa molto conto sulle informazioni fornite dalle vittime stesse nel momento in cui si sentono tutelate».

 

Cosa si sarebbe potuto fare e non si è fatto per non arrivare a questo punto?

«Occorreva prevedere delle linee di finanziamento stabili. La pecca dei governi che si sono succeduti in questi anni è proprio quella di non aver creato un sistema nazionale basato su un quadro normativo completo. Ecco perché succede che lo Stato italiano per risparmiare un milione e mezzo di euro dia un colpo, diciamo pure mortale, al sistema di protezione delle vittime e di contrasto alla criminalità. Se a questo aggiungiamo il fatto che per i progetti di prima assistenza (previsti dall’art. 13 della legge 226/2003) non sono stati messi a bilancio i fondi per il prossimo anno e che per i progetti di inserimento sociale (finanziati con l’art. 18 del Testo unico sull’immigrazione) c’è una riduzione di 800 mila euro sui 4,5 milioni di euro stanziati negli ultimi anni, è evidente che stiamo andando incontro a uno smantellamento del sistema italiano che pure a livello internazionale ha avuto tali riconoscimenti da ispirare le più importanti normative a riguardo».

 

Qual è la vostra proposta al governo?

«Noi chiediamo di creare un sistema nazionale con una governance forte e con una dotazione finanziaria adeguata perché qui parliamo di servizi essenziali per persone i cui diritti umani sono stati violati, servizi che tra l’altro offrono un efficace contributo al contrasto alla criminalità. E ci aspettiamo un coinvolgimento pieno nella definizione di un nuovo assetto di questi interventi».

 

Come prevedete di andare avanti?

«Se la situazione non cambia, rischiamo seriamente di dover chiudere le strutture e i servizi, non solo perché vengono meno i fondi, ma anche perché, mancando le fonti di emersione del fenomeno, i progetti avranno meno richieste, quando il fenomeno invece c’è, aumenta e si diversifica».

 

Un grave problema, dunque, che attende una forte risposta dal governo, ma anche da tutte quelle forze, e non sono poche, che nel nostro Paese non lesinano sforzi per ridare dignità alle donne cui è stata tolta.

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