Tre vite «a porte chiuse» nell’inferno secondo Sartre

Il testo teatrale più noto e rappresentato, scritto dall'autore francese nel 1944, durante l'occupazione nazista nel suo Paese
teatro

Entriamo disponendoci su delle sedie collocate una accanto all’altra alle pareti nere del quadrilatero della stanza. Al centro tre divani su un pavimento a scacchi. Silenzio. Si chiude la porta del piccolo teatro Argot. E, in quel frangente di tempo che separa l’inizio dello spettacolo, inevitabilmente non possiamo fare a meno di guardare lo spettatore di fronte a noi seduto dall’altra parte, coinvolti anche noi, in qualche modo, nella rappresentazione. Entra la prima persona, un uomo, accompagnato da un inserviente. Questi, una sorta di Virgilio dantesco, gli mostra la stanza, dandogli delle indicazioni secche. L’ospite si aggira nervoso facendo molte domande su quel luogo, chiede se c’è una finestra, e se rimarrà solo. Più tardi entra una donna, e successivamente una seconda. Tre perfetti sconosciuti, Garcin, Ines ed Estella – un ex giornalista, un’impiegata delle poste, una borghese che ha trascorso la sua vita tra feste e salotti mondani – persone apparentemente perbene, che si trovano a condividere quello stesso spazio. Appureremo pian piano dai loro discorsi che sono accomunati dall’essere degli assassini, e che sono già morti. Tre persone chiuse in una stanza, condannate per l'eternità a giudicare e ad essere giudicati, sino a diventare vittima l’uno dell’altro, ognuno schiavo della coscienza altrui, a esistere solo perché esistono gli altri.

È l’inferno sulla terra secondo Jean Paul Sartre, autore di A porte chiuse, il suo testo teatrale più conosciuto e rappresentato (scritto nel 1944 durante l’occupazione nazista in Francia), ma che mancava da molto tempo dalle nostre scene. A riproporlo in questa claustrofobica ma efficace messinscena è il regista Filippo Gili con un bel cast dall’interpretazione naturalista, pur con qualche esagerazione di toni: Piergiorgio Bellocchio, Liliana Massari, Massimiliano Benvenuto e Vanessa Scalera. All'inizio i tre si incalzano e si sfuggono, provano a raccontarsi per conoscersi, in realtà nessuno vorrebbe far sapere agli altri come è stata la propria vita, giunti in quel luogo perché hanno commesso qualcosa che li accomuna. Tra visioni del passato e intime confessioni, i condannati, vivono quel terribile supplizio di una convivenza forzata nella quale è negato ogni possibile approccio sentimentale, soffocato dall’ostilità che l’essere umano prova verso i propri simili. «L’inferno sono gli altri», constaterà infatti uno dei tre protagonisti, la celebre frase del maestro dell'esistenzialismo. Il dramma di Sartre, in questa messa in scena coinvolgente, ci parla ancora oggi descrivendo e affrontando temi quali la libertà, il senso dell’esistenza e la responsabilità. E quando sentiremo il rumore amplificato della porta che viene serrata definitivamente, senza più via di scampo per nessuno, un certo senso di angoscia fa capolino, lasciandoci immaginare per un momento cosa potrebbe essere quella definitiva condanna privata della dimensione dell’amore, del riscatto, del perdono. 

Al teatro Argot di Roma, per la rassegna “Prove di volo”, fino al 4 maggio

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons