Tre passi nello stupore

Ho sempre avuto un debole per la calligrafia degli anziani. Il tratto tremulo, ma deciso. Parole dense di tempo. Con emozione guardo una copia del manoscritto in polacco datato 14.XI.2002. Le prime bozze del Trittico romano di Giovanni Paolo II. Desta stupore e ammirazione un papa che all’età di 82 anni scrive un poema. Una bella lezione per quelli che scrivono versi e magari hanno un altro mestiere. Niente scuse. Mai più discorsi del tipo: “Non ho tempo per scrivere, ho cose più importanti da fare”. Scrivere non è un lusso. È una necessità interiore, a volte un imperativo. Quando non lo ascoltiamo, ci sembra di star tradendo qualcosa (un’ispirazione?) o qualcuno (noi stessi). Il papa, tra le incombenze della sua missione di pontefice, ha trovato il tempo. Se ci mettiamo un po’ d’impegno, lo troveremo anche noi. Si possono passare periodi prosaici o di silenzio, vero e proprio. Alla fine l’ispirazione arriva, a sapere aspettare il tempo giusto. E, se è possibile, lo stupore, senza il quale la vita è contingenza banale. Giovanni Paolo II ha fatto dello stupore un poema, una meditazione, un viaggio. Se vogliamo seguirlo nel suo cammino, dobbiamo fare tre passi. Il primo ci porterà sulle rive di un torrente di montagna. Chiudiamo gli occhi per ascoltare. Deve averlo fatto anche il papa prima di scrivere Stupore, il primo componimento del Trittico. Qui bisogna dire una cosa. La lingua polacca appare, a chi non la conosce, un’improbabile successione di consonanti faticosamente organizzabili in suoni. Invece è una lingua bellissima, una specie di bisbiglio melodioso, simile allo scorrere dell’acqua o al soffio leggero del vento tra le foglie. Per questo non è la stessa cosa leggere: “l’argentata cascata del torrente/ che dal monte cade ritmato/ trasportato dalla propria corrente”. Oppure: “srebrzysta kaskada potoku/ ktòry spada z gòry rytmicznie/ niesiony swym wlasnym prldem”. Il significato è lo stesso, ma il suono è diverso. In polacco è musica d’acqua che gorgoglia, rimbalza, s’infrange in vortici invisibili, scorre. La corrente di un torrente, appunto. Il papa lo vede passare e pensa: passi e passo anche io con te. Un torrente delle Alpi o dei monti Tatra. Non lo sappiamo. Acqua di montagna, in ogni modo. Rapida, fredda, dinamica. Stupore dell’acqua che passa, del passare con essa di noi uomini, creature tra cose create che si limitano ad esistere e passare. Mentre l’uomo si stupisce, da sempre, dai tempi di Adamo, che “era solo, col suo stupore,/ tra le creature senza meraviglia/ – per le quali esistere e trascorrere era sufficiente./ L’uomo, con loro, scorreva/ sull’onda dello stupore!/ Meravigliandosi, sempre emergeva/ dal maroso che lo trasportava,/ come per dire a tutto il mondo:/ Fermati! – in me hai un porto/ in me c’è quel luogo d’incontro/ col Primordiale Verbo”. Adamo è il nome del primordiale stupore. Dal primo uomo, all’ultimo, non abbiamo mai smesso di cercare di ogni moto la causa, del flusso incessante della vita, la sorgente. “Dove sei, sorgente?!”. “Se vuoi trovare la sorgente,/ devi proseguire in su, controcorrente”. Continuiamo allora il nostro cammino. Facciamo un altro passo. Sorpresa. È scomparso il torrente, si è spento il suono del suo scorrere ritmato. Siamo sulla soglia della Cappella Sistina. “Siamo sulla soglia del Libro./ Questo è il Libro delle Origini – Genesis./ (“) Entriamo, per rileggerlo,/ passando di stupore in stupore”. I sensi si spostano integralmente dal sentire al vedere. Lo sguardo si dispiega in meditazione tra il giorno della creazione e quello del giudizio finale, l’alfa e l’omega. “Il Libro aspetta l’immagine -/ È giusto. Aspettava un suo Michelangelo./ Perché colui che creava “vedeva” – vide che “ciò era buono”./ “Vedeva”, ed allora il Libro aspettava il frutto della “visione”./ O uomo che vedi anche tu, vieni -/ Sto invocandovi “vedenti” di tutti i tempi./ Sto invocandoti, Michelangelo!/”. Abbiamo bisogno di vedere, di riacquistare la visione che il creatore, “primo Vedente”, ha trasmesso a Adamo ed Eva. Michelangelo ci può aiutare, perché ha visto e trasformato la sua visione in immagine. Il papa, altro vedente, ci aiuta con i suoi versi. “Non vogliono forse riacquistare questa visione di nuovo?/ Non vogliono forse, per sé stessi, essere autentici e trasparenti -/ come già lo sono per Lui?”. Una delle qualità di questo poema è la trasparenza, intensa come capacità di lasciar passare la luce. Se c’è luce vediamo. Il Trittico romano è poesia e meditazione. Poesia prima di tutto, perché visione. Poi meditazione, nel senso di riflessione filosofico- teologica. Ammesso che ci sia un prima e un poi. La luce è fatta di colori. Ma noi non vediamo i colori, vediamo la luce. Se si potesse far passare attraverso un prisma la scrittura di Wojtyla, si distinguerebbero le sue tre componenti: poetica, filosofica e teologica. Nella versione polacca del Trittico c’è armonia tra di esse. Ne risultano versi trasparenti. Passa la luce. Nella versione italiana prevale il timbro meditativo, pur non mancando slanci lirici. Difficile tradurre la poesia. Non di meno, così necessario. Immerso “nell’icastica visione” del Principio e della Fine, “apogeo della trasparenza”, il papa rivede “la stirpe, a cui è stata affidata la tutela del lascito delle chiavi”, riunita nei due conclavi del 1978, quando anche lui votò e fu votato. Ed immagina il giorno in cui la “policromia Sistina” farà da scenario all’elezione del suo successore. Versi toccanti. “Era così nell’agosto e poi nell’ottobre, del memorabile anno dei due conclavi,/ e così sarà ancora, quando se ne presenterà l’esigenza/ dopo la mia morte”. Il primo passo ci ha portato sulle rive di un torrente di montagna. Il secondo sulla soglia della Cappella Sistina. Il terzo si ferma ai piedi del colle di Moria. Inizia il tratto più ripido del cammino. La salita di Abramo ed Isacco verso l’atto insensato. La loro straziante conversazione. Quello che si sono detti e quello che non si sono detti, perché indicibile. Le parole misteriose di Abramo sulla necessità di un sacrificio. Il silenzio di Isacco che non osa chiedere dove sia l’agnello da immolare? Ma soprattutto il silenzio di quella Voce. Più che le parole qui è protagonista il silenzio. La Voce che aveva chiamato Abramo da Ur di Caldea promettendogli il dono, fino ad allora negato, della paternità; una discendenza numerosa come la sabbia sulle riva del mare. La Voce che lui ha seguito incondizionatamente gli chiede ora una cosa impossibile: l’offerta del figlio. Rivuole tutto indietro. Crudele. Poi tace. Ed inizia la notte di Abramo. “Adesso la Voce tace-/ È rimasto da solo col proprio nome/ Abramo: Colui che ebbe fede, sperando contro ogni speranza”. Soli col proprio nome. Che potrebbe voler dire: soli con la verità più profonda di noi, con il proprio destino, soli sulla propria strada. Vi ci siete mai trovati? Non sono forse questi versi un’icona esatta della prova, di ogni prova di Dio? Per quel poco o tanto che nella vita abbiamo seguito una voce interiore, sappiamo cosa vuol dire il silenzio angosciante di quando quella voce, nel momento di maggior bisogno, tace. È come se il nostro nome ci diventasse improvvisamente estraneo. E con esso il nostro destino, la nostra strada. Che senso ha continuare a camminare se i nostri passi conducono al nulla? Se il tratto che segue sembra l’esatta negazione di quello che lo ha preceduto? Non capiamo più chi siamo. Abramo è “colui che ebbe fede sperando contro ogni speranza”. Se di lui, se del suo nome, risuona in noi l’eco, siamo salvi. “O Abramo – così Dio ha amato il mondo,/ che ha consacrato il suo Figlio, perché ognuno, che avrà fede in Lui,/ possa attingere alla vita eterna./ – Fermati -/ Io porto dentro di me il tuo nome/ il nome – segno dell’Alleanza”. Il Trittico romano appare mentre una guerra, l’ennesima, affligge la speranza di chiunque creda nella fratellanza universale. La visione poetica di Giovanni Paolo II ci aiuta a superare la delusione, proiettando lo sguardo verso le verità ultime della fede. “La vita è forse un’onda di stupore, un’onda più alta della morte?”. Scriveva Wojtyla nel suo poema Canto del Dio nascosto. Era il 1944. C’era una guerra, allora. Come oggi. Eppure. “Perché proprio di quell’unico giorno si è detto:/ “Dio vide che ciò che aveva fatto era buono assai”?/ Perché, allora, sembra che la storia contraddica tutto questo?/ Pure il ventesimo secolo! E non solo il ventesimo!/ Però, nessun secolo riuscirà ad offuscare la verità/ su immagine e somiglianza”.

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