Incontri aleppini
Mi risveglio con il cinguettio degli uccelli che stazionano nel parco pubblico. Di tanto in tanto si è udita una lontana esplosione, qui dicono che è assolutamente normale, perché il fronte è ad appena trenta chilometri, dalle parti di Afrin. Lì combattono turchi e curdi, i siriani stanno a guardare, altri eserciti pure come i russi e gli statunitensi. Aleppo, è un dato di fatto, è tenuta in vita dalla sottile fettuccia d’asfalto precario che attraversa il deserto fino a Homs e Hama, passando per lo snodo di Esria. Fa impressione che una città così grande sia in qualche modo sospesa a un filo, che potrebbe essere reciso in qualsiasi momento, facendo ripiombare Aleppo nello status poco invidiabile di città assediata. Oggi è giornata di incontri.
Ci incontriamo dapprima con il muftì di Aleppo Akkam che racconta la storia della città di Aleppo, vecchia di 9 mila anni.
«Nessuna civiltà non è passata da queste parti – mi dice –, e la città era meta di profeti e di santi di tutte le religioni. Le testimonianze al proposito sono tante. Anche la religione pre-giudaica era qui. È stata trovata un’iscrizione su pietra di 8 mila anni fa, che dice: “Non disprezzare un Dio che altri adorano”. Questo è quello che Aleppo ha vissuto nei riguardi della religione. Lo stile di vita della gente, i riti e i nazionalismi fanno parte di questa città che ha una regola etica fondamentale: il rispetto del diverso da sé, rispetto che alla fine è mutua sicurezza. Aleppo ha sofferto di catastrofi naturali e di guerre d’ogni tipo. Le persone più sante sono anche quelle che più soffrono, mai dimenticarlo. Lo diceva anche il Profeta: “Quelli che soffrono di più sono profeti e santi”. E i luoghi sono come le persone, i luoghi più distrutti sono i luoghi più santi. Cristo è il più grande esempio, per questo lo chiamano Salvatore: ha offerto se stesso per la salvezza di molti, dell’intera umanità. Aleppo è speciale. Sono coloro che non hanno storia, civiltà e religione che hanno cercato di cancellarla. Nella loro pochezza sono persone del Male che godono nel vedere la disperazione altrui».
Poi passa al presente: «Noi speriamo che i Paesi occidentali abbiano una visione oggettiva guardando all’insieme della Siria, trattando come si meritano i malfattori, coloro che hanno cercato in tutti i modi di cancellare la storia e la civiltà della Siria. Faranno lo stesso con le culture e le civiltà occidentali, sappiatelo. Ma il denaro acceca i governanti, il business è l’unica cosa che conta».
Fatalmente il muftì Akkam torna ad Aleppo: «Stiamo risorgendo. Già il 75% della città s’è rimessa in piedi. Ora manca il restante 25%. Bisogna rimettere in moto Aleppo come città di cultura, perché il buono rimane sempre, sopravvive. Il perdono? Il perdono è frutto di una vita antica di misericordia e giustizia. Nessuno si sbaglia quando dice che dobbiamo perdonarsi. Qui siamo tutti fratelli sotto l’unico tetto siriano. Il perdono viene dopo il conflitto, ma noi non abbiamo avuto veri conflitti interni. Quelli che siamo qui ci siamo già perdonati. Poi ricorda i due vescovi scomparsi ormai da 5 anni: «Sono presenti nel mio cuore, eravamo fratelli, scherzavamo assieme, siamo stati nutriti dalla stessa madre, Aleppo».
Grandi principi nelle parole del muftì: «L’incontro dell’uomo con l’uomo è il nostro scopo. Se ci fosse una religione che indebolisce questo incontro, non sarebbe una religione che viene da Dio. È Dio che fa incontrare i popoli. C’è un legame morale fondamentale che lega l’umanità, che non si limita a strade e ponti radio, ma dipende dall’anima universale che non ha bisogno di passaporti e di autostrade per viaggiare. Il mio slogan è semplice:
“Fai piacere a Dio, sostieni la persona umana, servi il Paese”.
Il mio è un appello umanitario: non si tratta di Islam o non Islam, ma di uomo o non uomo. Ho dichiarato di fronte a musulmani e cristiani e politici del mondo intero che la stupidità dell’uomo è grande quando il cristiano speri che il musulmano diventi cristiano, e viceversa. Incontriamoci piuttosto intorno alla nostra umanità. Tante delegazioni sono venute in questi anni di guerra, e ho ripetuto sempre gli stessi slogan: “Conoscenza e non polvere da sparo”! E ancora: “Faremo in modo che la forza dell’amore vinca sull’amore della forza”».
Cosa dice un muftì sotto le bombe? «Un muftì sotto le bombe non parla, tace. Con il suo atteggiamento e con la sua perseveranza, con la sua calma porta a Dio. Diffonde speranza attraverso quello che lui vive: dimostra che Dio è con noi e noi siamo con Dio. Durante la crisi, cioè la guerra, la gente passava davanti alla mia casa e solo vedendo la luce accesa si sentiva rassicurata, perché quella luce diceva una presenza, Per questo il silenzio a volte parla più delle parole. Ringraziamo Dio che ora gli allarmi sono quasi finiti». Cosa direbbe ai ribelli che eventualmente potrebbe incontrare?: «Io vi auguro di ascoltare con onestà la vostra coscienza, perché quella è la voce di Dio in voi. Ascolta quella voce, non quella degli imam o dei falsi maestri di guerra».
Incontro commovente, soprattutto a posteriori, con Elias Janji, un giovane prete non ancora quarantenne, un armeno-cattolico di grande passione, intelligenza, musicista, professore di teologia, giornalista, predicatore, e chi più ne ha più ne metta.
Durante la guerra aveva organizzato un piccolo show che s’intitolava “La luce di Aleppo”, un programma preciso, che è diventato una trasmissione di Telelumière che ormai ha accumulato più di cento puntate. «Forse da Capodanno cercheremo di proporre anche delle news, delle good news di Aleppo. Siamo in 7 a lavorare alla trasmissione, col permesso del governo che in effetti ci lascia una gran libertà di movimento. Ho incontrato recentemente la moglie del presidente, alla quale ho chiesto di poter avere una televisione cristiana siriana. Lei mi ha riposto di sì, e ha aggiunto: “Dovete anche costruire una università cristiana”».
Parliamo di diritti dei cristiani: «Siamo pochi, siamo sempre di meno. I musulmani stessi sanno che noi cristiani diamo un equilibrio indispensabile al Paese, dobbiamo perciò fare l’impossibile per rimanere. Chissà, forse si potrebbero inventare delle forme nuove per far tornare tanti giovani siriani: ad esempio, si potrebbe trasformare il servizio militare per tutti coloro che sono fuggiti per non andare in guerra in un servizio civile. I giovani hanno bisogno di un leader che dica loro: qui c’è tanto da fare, qui la vita è bella, la musica ad esempio ci salva. Bisogna credere alla bellezza della vita». Padre Elias attacca: «Noi abbiamo già la libertà che voi pensate che non abbiamo. Assad è un presidente eccellente per noi tutti. Con lui possiamo fare processioni nelle strade, con lui possiamo respirare di nuovo e credere che usciremo dal tunnel». E conclude, annunciando un concerto che ha organizzato per domani alla Cittadella, alla presenza della moglie del presidente: musica classica, Beethoven e Mozart. «Qui ad Aleppo bisognerebbe costruire un Teatro dell’Opera, con accanto un conservatorio».
NdR: decidiamo di rivederci tre giorni più tardi a Beirut, per progetti universitari comuni. Lo aspettavo ma non è mai arrivato. Sulla strada verso Damasco si è scontrato contro un camion uccidendosi sul colpo. Anche questa è la guerra di Siria: le strade siriane sono oggi il pericolo di morte più grande che il Paese debba sopportare.
Suor Arcangela è lucchese, precisamente di Capannori. Da 49 anni è qui in Siria, nell’ospedale di Saint Louis detto Friscio.
«In questi anni ho assistito al progresso della Siria. Avevamo un livello molto alto nella medicina e nella chirurgia, ora i medici sono partiti in massima parte (erano 50 ora sono 25, ma con qualificazioni molto più basse) e quindi siamo in difficoltà. Ma ancor più ci mancano le infermiere: per questo abbiamo dovuto chiudere due reparti dell’ospedale, e Dio sa se ci sarebbe bisogno di tenere aperto ogni letto possibile e immaginabile».
Il tono è dato, suor Arcangela è una forza della natura, concretissima. «La provvidenza non ci è mai mancata, questa guerra ci ha maturati tutti quanti nel dolore. Abbiamo toccato la mano di Dio. La sua fede e la sua misericordia. Tenere aperto un ospedale senza acqua e senza energia elettrica non è cosa da poco, ma ci siamo riusciti».
Sei suore di 4 nazioni della congregazione delle suore di San Giuseppe dell’apparizione assicurano l’apertura dell’ospedale, che è anche sostenuto dal nunzio, il card. Zenari, che spesso viene qui.
Pensate, l’ospedale è stato colpito 7 volte, 3 da mortai e 4 da bombe. Qui passano più di mille pazienti al mese, arriva gente anche da Afrin e da Raqqa ormai». Suor Arcangela ha un’abitudine: con i bossoli delle pallottole, delle granate o persino con le schegge di bomba raccolte attorno o sull’ospedale compone immagini sacre: crocifissi, statue della Madonna, scritte liturgiche, colombe della pace…